Forse a go descoverto parké l'è ndà via da Urhttps://it.wikipedia.org/wiki/AbramoAbram, figlio di Terach e fratello di Nacor e Aran, viveva nella città di Ur con la propria famiglia. Qui sposò la sorellastra Sarai, figlia dello stesso padre, ma di madre diversa. Terach, Abram, Sarai e Lot (il figlio di Aran, che era nel frattempo morto) si spostarono a Haran, città della Mesopotamia settentrionale, l'attuale Harran in Turchia). Lì morì Terach, all'età di 205 anni.
https://it.wikipedia.org/wiki/Ur Ur (in lingua sumera Urim, in arabo أور) fu un'antica città della bassa Mesopotamia, situata vicino all'originale foce del Tigri e dell'Eufrate, sul golfo Persico. A causa dell'accumulo di detriti, oggi le sue rovine si trovano nell'entroterra, nell'odierno Iraq, 15 chilometri a occidente dell'attuale corso dell'Eufrate vicino alla città di Nasiriyah (Governatorato di Dhi Qar), a sud di Baghdad. Oggi è chiamata Tell el-Mukayyar. Da un punto di vista archeologico gli scavi condotti a Ur hanno offerto centinaia di documenti scritti.
Ur fu uno dei primi insediamenti abitati della bassa Mesopotamia i cui reperti più antichi sono databili antecedentemente al 4000 a.C. Ur crebbe e da centro agricolo e pastorale si trasformò divenendo una vera e propria città con uno sviluppo delle attività artigianali e commerciali. Attorno al 2600 a.C., il clima della Bassa Mesopotamia mutò gradualmente da relativamente umido a secco, causando lo spostamento degli abitanti dalla città alle piccole comunità di villaggi di agricoltori dove risultava più facile far fronte ai periodi di forte siccità. Nella seconda metà del terzo millennio a.C. si ebbe dunque una contrazione della città, la quale rimase tuttavia fiorente durante tutta l'Antica Dinastia sumerica III e divenne parallelamente il principale centro di culto della dea Inanna.
http://www.homolaicus.com/at/abramo.htmSe diamo per scontato che la figura di Abramo sia leggendaria (la personificazione di una distinzione tribale), dobbiamo comunque chiederci perché questa figura ebbe così tanto successo presso il popolo ebraico. Io penso che, anche prescindendo totalmente dalla cornice religiosa che avvolge questo personaggio, Abramo rappresenti una sorta di desiderio di liberazione da qualcosa di opprimente, cioè l'evoluzione di una consapevolezza della dignità umana.
Quando, nel XVIII sec. a.C., lasciò la terra di Ur (Bassa Mesopotamia, dominata dai Sumeri) non era un poveraccio, poiché apparteneva a un'importante tribù di allevatori, guidata dal padre Terah. Il motivo della dipartita probabilmente era di tipo politico: una contestazione nei confronti dell'accentramento del potere monarchico ("Regno antico di Babilonia"), fondato su uno schiavismo non meno insopportabile di quello egizio, allora coevo.
L'emigrazione dovette comportare la rinuncia a una relativa sicurezza economica, per sperare di avere in cambio maggiore autonomia politica. Ecco perché la Bibbia dice che "Abramo ebbe fede": lasciava il certo, non amato, per l'incerto, ancora da amare.Che poi, detto questo, si sia favoleggiato sulla "santità" di quest'uomo, è altro discorso.
Quando Abramo, colpito dalla carestia nella terra di Canaan, decise di recarsi in Egitto, trasformandosi da allevatore a mercante di sua moglie, nel senso che facendola passare per sua sorella la rese disponibile al faraone, come una sorta di prostituta di lusso a tempo indeterminato, non fece certo mostra di particolare "santità", per quanto quella scelta non possa essere capita senza un'adeguata contestualizzazione storica, non solo relativa alla coscienza etica in generale, di quel tempo, ma anche in riferimento alla scarsa considerazione in cui allora si teneva l'onore della donna. (Da notare però che i testi lasciano trasparire l'idea che il sacrificio della dignità di Sara era dipeso dal rischio che, a causa della sua bellezza, potessero sottrarla con la forza al marito, anche uccidendolo).
Non nel nome di Diohttp://www.giuntina.it/Schulim_Vogelman ... o_682.html Jonathan Sacks
https://it.wikipedia.org/wiki/Jonathan_Sacks Jonathan Henry Sacks (Londra, 8 marzo 1948) è un rabbino britannico, considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, col titolo di Chief Rabbi of Great Britain and the Commonwealth of Nations ("Rabbino capo della Gran Bretagna e del Commonwealth delle nazioni") dalla sua nomina nel 1991 fino alla conclusione del suo mandato nel 2013. Creato Sir dalla Regina Elisabetta II nel 2005 per servizi resi alla Comunità e alle relazioni inter-religiose e nel 2009 nominato Lord Barone con un seggio a vita nella Camera dei Lord.
Capitolo 11
L’universalità della giustizia, la particolarità dell’amore...
Il tema di questo capitolo è che la Bibbia affronta questa questione in modo diretto e assai originale. Lo fa in Genesi 6, 11, con due famose storie: il Diluvio e la Torre di Babele.
La Bibbia è chiara riguardo alle mancanze della generazione del Diluvio. Gli uomini erano malvagi, violenti, e «ogni inclinazione dei pensieri del loro cuore era sempre e soltanto male» (Gn 6, 5). Questo è il linguaggio di un fallimento morale sistemico.
L’atmosfera all’inizio della storia di Babele sembra, per contrasto, quasi idillica. «Tutta la terra aveva una lingua unica e le stesse espressioni» (Gn 11, 1). Sembra prevalere l’unità. I costruttori sono intenti a costruire, non a distruggere. Non è affatto chiaro quale fosse il loro peccato. Tuttavia, dal punto di vista della Bibbia, Babele rappresenta un altro cambiamento gravemente sbagliato, perché subito dopo Dio invita Abramo a iniziare un capitolo totalmente nuovo nella storia religiosa dell’umanità.
In realtà, le storie del Diluvio e di Babele sono descrizioni esattamente combacianti con le due grandi alternative:
l’identità senza l’universalità, e l’universalità senza l’identità. Il migliore resoconto del Diluvio, per quanto non si riferisca esplicitamente ad esso, fu opera dell’uomo che pose le fondamenta della moderna politica, Thomas Hobbes, nel suo classico Leviatano (1651). Prima che ci fossero le istituzioni politiche, diceva Hobbes, gli esseri umani erano in uno «stato di natura». Erano individui o piccoli gruppi. In mancanza di un governante stabile, di un governo effettivo e di leggi applicabili, le persone erano in uno stato permanente di violento caos – «una guerra di ogni uomo contro ogni uomo» – mentre si disputavano le scarse risorse. C’era «la paura continua, e il pericolo di morte violenta».
Che è precisamente la descrizione della Bibbia della vita prima del Diluvio. Quando non c’è il dominio generale della legalità il mondo è colmo di violenza.La storia di Babele analizza la realtà opposta. È stata di solito equivocata. L’interpretazione tradizionale è quella di un racconto eziologico che spiega come l’umanità, che originariamente aveva «una lingua unica e le stesse espressioni», sia arrivata al punto di essere divisa in molte lingue. Questa lettura è plausibile ma errata. La ragione è che il capitolo precedente, Genesi 10, ha già descritto la divisione dell’umanità in settanta nazioni, «aventi ciascuna la propria lingua» (Gn 10, 5). Il solo modo in cui la lettura convenzionale ha un senso è se Genesi 10 e Genesi 11 non sono in una sequenza cronologica corretta.2 Non c’è tuttavia alcuna ragione di supporlo.
Al contrario, l’unità della lingua all’inizio del capitolo 11 non era naturale ma imposta. Essa descrive la consuetudine dei primi imperi del mondo. Abbiamo la prova storica, che risale ai neo-assiri, che i conquistatori imponevano la loro lingua ai popoli sconfitti. Un’iscrizione del tempo riporta che Assurbanipal II «fece sì che tutti i popoli parlassero una sola lingua». Un’iscrizione su base cilindrica di Sargon II dice: «Popolazioni dei quattro quarti del mondo con lingue strane e parlata incompatibile … che io ho preso come bottino di guerra all’ordine di Ashur mio signore con la forza del mio scettro, ho indotto ad accettare una singola voce».3 I neo-assiri affermarono la loro supremazia insistendo sul fatto che la loro lingua era l’unica da usarsi da parte delle nazioni e delle popolazioni che avevano sconfitto.
Babele è una critica dell’imperialismo.C’è perfino una sottile allusione a ciò nel parallelismo del linguaggio tra i costruttori di Babele e il Faraone che rese schiavi i figli d’Israele. A Babele dicevano «Orsù [havà] costruiamo noi stessi una città e una torre … affinché [pen] non siamo dispersi su tutta la faccia della terra» (Gn 11, 4). In Egitto il Faraone diceva: «Orsù [havà] trattiamo saggiamente con loro, affinché [pen] non crescano di numero» (Es 1, 10). Queste sono le sole occasioni in cui nella Bibbia ebraica appare la locuzione «Orsù, facciamo/trattiamo… affinché non». Il collegamento è troppo evidente per essere accidentale. Babele, come l’Egitto, rappresenta un impero che sottomette intere popolazioni al prezzo delle loro distinte identità e libertà. Se il Diluvio riguarda la libertà senza ordine, Babele e l’Egitto riguardano l’ordine senza la libertà.
Il racconto della Bibbia ci sta dicendo questo: Genesi 10 descrive la divisione dell’umanità in settanta nazioni ed altrettante lingue. Genesi 11 ci narra come una potenza imperiale conquistava le nazioni più piccole, imponendo loro la sua lingua e la sua cultura, contravvenendo così direttamente al desiderio di Dio che gli uomini debbano rispettare l’integrità di ciascuna nazione e di ciascun individuo. Quando, al termine della storia di Babele, Dio «confuse le lingue» dei costruttori, non sta creando un nuovo stato delle cose ma ripristinando il vecchio.
Interpretati così, i racconti del Diluvio e della Torre di Babele non sono semplici narrazioni storiche. Insieme costituiscono una dichiarazione filosofica sull’identità e la violenza. Il Diluvio è ciò che accade quando ci siamo Noi e Loro e nessuna legge generale a mantenere la pace. Il risultato è l’anarchia e la violenza. Babele è ciò che accade quando le persone cercano d’imporre un ordine universale, obbligando Loro a diventare Noi. Il risultato è l’imperialismo e la perdita della libertà. Ricordate le parole di Samuel Huntington nell’intestazione di questo capitolo: «la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa […]
L’imperialismo è l’inevitabile corollario dell’universalismo». Quando una singola cultura viene imposta a tutti, sopprimendo la diversità di lingue e tradizioni, questo è un attacco alle nostre differenze donateci da Dio. Come dice il Corano (49, 13): «O umanità! Ti abbiamo creata da una singola (coppia) di un maschio e di una femmina, e fatta diventare nazioni e tribù, così che possiate conoscervi reciprocamente (e non disprezzarvi reciprocamente)».
Così il Diluvio e la Torre di Babele insieme definiscono il dilemma umano fondamentale. Siamo diversi. Siamo tribali. E le tribù si scontrano. Il risultato è la violenza che, nel Diluvio, ha quasi distrutto l’umanità. Ma eliminate la differenza imponendo una singola cultura, religiosa o secolare, a tutti, e il risultato è la tirannia e l’oppressione. La Bibbia ebraica costituisce un tentativo, unico, di risolvere il dilemma mostrando come l’unità di Dio può coesistere con la diversità dell’umanità.La diversità è ciò che dà colore e consistenza alla nostra vita sulla terra. L’arte, l’architettura, la musica, le storie, le celebrazioni, il cibo, le bevande, la danza: tutte queste sono cose particolari. Nessuna di esse è un universale astratto. Il compianto Sidney Morganbesser era un professore di filosofia presso la Columbia University con uno straordinario senso dell’umorismo. (Poco prima di morire, chiese a un altro filosofo: «Perché Dio mi fa soffrire così tanto? – Solo perché non credo in lui?»). Una volta portò i suoi studenti in un ristorante e ordinò una zuppa. «Che tipo di zuppa?» chiese il cameriere. «Di pollo, di carote, del borsht?». «Nessuna di queste» rispose. «Semplicemente una zuppa». Il cameriere, non essendo un filosofo, lasciò perdere. Il punto di Morganbesser è che non si può mangiare della zuppa in astratto. Non puoi parlare un linguaggio che è universale, e non puoi avere un’identità che dice: «Sono semplicemente un essere umano». Alcuni greci antichi lo pensarono, ma questo perché non consideravano i non-greci come pienamente umani. L’identità è plurale. Ciò costituisce l’inevitabile diversità dell’umanità.
Allora come evitiamo la violenza che nasce quando gruppi diversi s’incontrano e si scontrano? La risposta proposta dalla Bibbia è che qualcosa trascende le nostre differenze. Quel qualcosa è Dio, ed egli ha impresso la sua immagine su ciascuno di noi. Ecco perché ogni vita è sacra, e ciascuna vita è come un universo. L’unità di Dio ci chiede di rispettare lo straniero, chi è fuori dal gruppo, l’estraneo, perché anche se non è a nostra immagine – la sua etnicità, la sua fede o cultura non sono le nostre – ciò nondimeno è a immagine di Dio.Quindi Dio è universale, ma la nostra relazione con lui è particolare. La Bibbia ebraica esprime questo concetto con le due parole fondamentali con le quali fa riferimento a Dio: Elokim* (E) e Hashem** (indicato dagli studiosi della Bibbia con J). Elokim è Dio nella sua universalità. Nella Genesi, Elokim parla ad Abimelek, re di Gerara (Gn 20, 3). Giuseppe, nel respingere le avances della moglie di Putifarre, dice: «Dovrei peccare contro Elokim?» (Gn 39, 9). Il Faraone, nel nominare Giuseppe, dice: «Si può trovare un uomo in cui sia presente, come in questo, lo spirito di Elokim?» (Gn 41, 38). La moralità in generale è descritta come «timore di Elokim» (Gn 20,11). Elokim è un termine puramente universale che si applica al rapporto fra le persone e Dio, sia che esse siano fuori o dentro il patto con Abramo.
Hashem, al contrario, è particolare. È come viene chiamato Dio nel contesto del patto abramitico e successivamente mosaico. È un nome proprio non un nome comune. È il linguaggio dell’intimità e del rapporto. Quando la Bibbia vuole descrivere ciò che Martin Buber chiamava una relazione Io-Tu usa la parola Hashem.
Ecco perché la Genesi descrive due patti; il primo con Noè e tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli, che non sono tutta l’umanità, ma solo un popolo in particolare al suo interno. Il patto con Noè (Gn 9) usa sempre la parola Elokim, mentre il patto con Abramo usa la parola Hashem (Gn 15, 18; 17, 1-2). Il patto con Noè esprime l’unità di Dio e la dignità e la responsabilità condivisa dall’umanità. Il patto abramitico esprime la particolarità della nostra relazione con Dio, che ha a che vedere con la nostra specifica identità, storia, linguaggio e letteratura. Il risultato è che nella Bibbia c’è sia una moralità che riguarda tutti, amici ed estranei, e un’etica, cioè un codice specifico di condotta che formula le relazioni all’interno del gruppo. Per usare il linguaggio della filosofia contemporanea, la moralità è sottile (astratta, generale) mentre l’etica è spessa (densa di struttura e di specificità locali).
La moralità che riguarda tutti, secondo la Bibbia ebraica, è giustizia, correttezza, l’evitare di recare offesa. Questa fu la prima cosa che Abramo dovette insegnare ai suoi figli: «seguire le vie del Signore facendo ciò che è buono e giusto». Giustizia, correttezza e l’evitare di recare offesa sono quello che dobbiamo a chiunque, ebreo o gentile, credente o ateo, amico o estraneo, connazionale o straniero.L’etica che si applica all’interno della comunità del patto coinvolge concetti più forti come la santità, la reverenza, la lealtà e il rispetto. È un’etica del santo, non solo del buono. È anche un’etica di ciò che i rivoluzionari francesi chiamavano fraternità. La Bibbia spesso dice cose come: «Se tuo fratello è bisognoso…». Applica la lingua della parentela al gruppo. Il patto abramitico non è semplicemente un gruppo parentale. Non è soltanto una questione di discendenza biologica. C’è una conversione. Ruth, l’eroina del libro eponimo, non era etnicamente ebrea. Era una moabita. Ma divenne parte della comunità del patto e bisnonna di David, il più grande re d’Israele. Perciò quando la Bibbia usa il linguaggio della famiglia, lo fa metaforicamente. Ma si tratta di una potente metafora. Gli ebrei si sentono responsabili l’uno dell’altro come se fossero un’unica famiglia allargata.
Possiamo ora comprendere perché, dopo Babele e il tentativo di imporre con la forza un’unica lingua a una popolazione diversa, Dio scelga Abramo e gli dica di abbandonare la sua terra e di viaggiare verso un luogo dove sarà uno straniero e un estraneo: diverso. Noè e il suo patto rappresentano universalità e giustizia. Abramo e i suoi discendenti rappresentano la particolarità e l’amore.
Il patto di Noè è il codice universale della Bibbia, la struttura fondamentale di un giusto ordine sociale. Le leggi noachidi, nell’interpretazione dei maestri dell’ebraismo, enunciano gli ampi parametri di una società rispettabile: il rispetto per Dio, per la vita umana, per la famiglia, per la proprietà, per il benessere degli animali e il dominio della legge.4 Questi princìpi sono generali, non specifici: sottili, non spessi. Si applicano a ogni uomo in virtù del fatto che è fatto a immagine di Dio, e quindi meritevole di dignità e di rispetto. Sono regole universali di ciò che oggi chiameremmo responsabilità e diritti.Ma essi si riferiscono a ciò che abbiamo in comune, non a cosa ci rende diversi.
Così la Bibbia passa dall’universale al particolare: la narrazione di Abramo e Sara e dei figli d’Israele mentre viaggiano nel tempo e nello spazio verso la Terra Promessa. Questo è un racconto di ciò che significa vivere strettamente e continuamente sotto la sovranità e la tutela di Dio. È un racconto non soltanto di giustizia, ma anche ed essenzialmente di amore.Il diritto nella tradizione ebraica e in Israeleviewtopic.php?f=197&t=2572