http://venipedia.it/ghettoI tre banchi di pegno e l’usurahttps://venipedia.it/it/ghetto/i-tre-ba ... 80%99usuraNel Medioevo il termine usura indicava qualsiasi interesse preteso per prestiti in denaro o in natura.
A Venezia, tale attività fu inizialmente svolta dai Cristiani nei monti di Carità, i quali però vennero ben presto considerati contrari ai dettami della religione cristiana e quindi chiusi. La chiusura dei Monti di Pietà rappresentava un importante problema nella città lagunare in quanto erano numerose le persone che vi facevano uso, per cui tale lavoro venne imposto, unitamente ad altri obblighi, alla comunità ebraica.
Nel Concilio Lateranense del 1215 vennero proibite agli ebrei tutte le attività e i mestieri già svolti dai cristiani. Considerando inoltre le competenze e le capacità in possesso degli ebrei che — a differenza dei cristiani, in maggioranza analfabeti anche nei ceti più elevati — sapevano leggere, scrivere e “far di conto”, essi rappresentavano le persone ideali per svolgere quella che la Chiesa (ma anche la normativa ebraica) considerava un’attività scomoda e indegna: il prestatore di denaro.
All’interno del ghetto vennero quindi istituiti tre banchi di pegno: rosso, verde e nero, presumibilmente per via del colore delle ricevute che gli ebrei consegnavano al cliente.
La gran parte dei prestiti si basava sul bene dato in garanzia e custodia, per cui tali oggetti dovevano essere conservati in un luogo ben protetto e salvaguardato da eventi quali incendi, furti e rapine. I prestatori non potevano accettare qualsiasi cosa in pegno, infatti alcuni oggetti quali armi o articoli religiosi erano vietati dalla legge. Trascorso un anno, la merce in pegno non riscattata veniva alienata sotto il controllo dei messi della Serenissima.
I banchi non erano liberi di applicare autonomamente il tasso di interesse sui prestiti, essendo questi concordati con il Senato della Serenissima: venne imposta una percentuale che variava dal 12% al 5%, inferiore al tasso applicato in altri luoghi. Esso variava in funzione della garanzia offerta: in pratica, nella garanzia di firma il tasso era superiore rispetto a quello applicato su pegno.
In Campo del Ghetto Nuovo è ancora visibile l’insegna del banco di pegno rosso. Una curiosità: alcuni studiosi, pur non esistendo fonti ufficiali che lo testimoniano, ritengono che il modo di dire “andare in rosso” risalga proprio all'atto di recarsi al banco di pegno per chiedere un prestito.
I tre secoli del Ghetto (1516-1797)https://venipedia.it/it/ghetto/i-tre-se ... -1516-1797Dopo la sconfitta veneziana di Agnadello, in una difficile situazione socio-economica, lo Stato accolse gli ebrei nel centro storico.
Giorgio Emo propose in senato di mantenerli in città ma di segregarli in zone appartate. Scartate le ipotesi di chiuderli nelle isole della Giudecca o di Murano, con un decreto del senato del 29 marzo 1516, si accolse la proposta di Zaccaria Dolfin di rinchiudere gli ebrei in Ghetto Nuovo. Nel 1516 si stima che circa settecento ebrei tedeschi, italiani e alcune famiglie levantine, siano entrati, in breve tempo, nelle case del Ghetto Nuovo, pagando un affitto aumentato di un terzo e sotto il controllo delle severe magistrature della Serenissima Repubblica, che impose a tutti, tranne i medici, come contrassegno “la beretta zala da Ebrei”. Il “serraglio de’ giudei” fu cinto da alte mura, i cui portoni si chiudevano alla sera per aprirsi solo all’alba, mentre giorno e notte alcuni guardiani, pagati dagli ebrei stessi, sorvegliavano il recinto girando anche per i canali circostanti. A questa sezione furono aggiunti, su richiesta dei levantini, il Ghetto Vecchio, nel 1541, dove furono accolti, più tardi, nel 1589, anche i ponentini, mentre, su richiesta di alcune famiglie sefardite, fu aggiunto, nel 1633, il Ghetto Nuovissimo.
I permessi e le condotte del 1541 e del 1589 fecero aumentare la popolazione ebraica di alcune migliaia. Il numero massimo di abitanti si ebbe comunque nel primo ‘600, nonostante le perdite dovute alla peste del 1630, per diminuire poi progressivamente, fino alle 1626 presenze, registrate nell’anagrafe del 1797.
La gestione del ghetto presentava all’interno una struttura piramidale. L’organismo comunitario era rappresentato di fronte alle varie magistrature da un Consiglio Minore (Wa‘ad qatàn) e retto, all’interno, da un’assemblea generale (Qahàl Gadòl), mentre ogni sinagoga aveva la propria amministrazione e le proprie congregazioni assistenziali.
Il quartiere ebraico veneziano era una struttura molto ben articolata.
Nel Ghetto Vecchio la toponomastica mostra che alcuni settori prendevano nome da gruppi di famiglie (Calle e Corte Barucchi) o da illustri personalità (Corte Rodriga). Per volontà dei Levantini e dei Ponentini (impegnati nel commercio marittimo internazionale, sotto il controllo dei Savi alla Mercanzia) esistevano, tra il Campiello delle Scuole e la Strada Maestra, un ospedale, un albergo, una libreria, un caffè, botteghe per la vendita della carne, due forni per il pane, anche azzimo, botteghe varie. Due pozzi fornivano l’acqua, mentre un miqwé (bagno rituale) si trovava presso la Corte Rodriga (a sinistra, usciti dal portico di ghetto vecchio).
Nel Ghetto Nuovo, invece, tutto ruotava intorno ai tre banchi di pegno (rosso, verde e nero dal colore delle insegne), collocati ai tre lati del campo, attorno alle tre sinagoghe maggiori e alle tre sinagoghe minori; mentre lungo tutti i lati sorgevano molte botteghe di vario genere, ma soprattutto di strazzaria. Tre pozzi servivano per attingere acqua, un bagno rituale era collocato presso Scola Tedesca, un forno presso il Canton del Forno (Scola Canton). Insomma: una piccola città nella città.
Per circa tre secoli, la convivenza delle diverse entità etniche confluite sulla laguna (tedeschi, italiani, levantini e ponentini) comportò spesso tensioni per la diversità di usi, di lingua e di costumi, ma anche per il differente trattamento riservato dal governo veneziano ai vari gruppi sociali. Gli ebrei tedeschi (ashkenaziti), prestatori e mercanti, da quando furono rinchiusi nel Ghetto Nuovo, furono costretti a tenere i banchi di pegno a interesse controllato e a praticare solo il mercato dell’usato (strazarìa), sotto il severo controllo, soprattutto, dei magistrati al Cattavèr. In questa difficile condizione, tuttavia, essi riuscirono, già tra il 1528 e il 1532, a costruire le loro splendide sinagoghe maggiori (Scola Grande Tedesca e Scola Cantòn), nelle quali poter seguire il loro rito originario e alle quali si aggiunsero, successivamente, altre tre più piccole Scole sorte nel Campo (Kohanìm, Mesullamìm e Luzzatto). Essi mantennero viva, per più di un secolo dalla reclusione, la loro lingua yiddish; stamparono, inoltre, il loro formulario di preghiere (machazòr), e operarono nella stamperia in ebraico di Daniel Bomberg, la più importante di Venezia, e poi in quelle di Bragadin, Giustiniani e Di Gara, nobili veneziani impegnati nell’arte della stampa.
Uniti ai tedeschi, gli italiani non formarono mai una natione autonoma. Emigrati da Roma o dall’Italia centrale, vissero in Ghetto Nuovo nelle stesse difficili condizioni dei tedeschi, ma anch’essi seppero mantenere vivo il loro culto, strutturare una solida organizzazione comunitaria interna e, soprattutto, costruire la loro sinagoga nel 1575 (Scola Italiana), accanto ai luoghi di culto tedeschi.
Ben diverse furono invece le condizioni di vita della natione levantina e di quella ponentina, accolte, nella seconda metà del ‘500 (1541 e 1589), nelle calli vicine al Ghetto Nuovo. Divenuti sudditi dell’impero ottomano, gli ebrei levantini acquistarono un posto di prestigio nel grande commercio marittimo, perciò Venezia li accolse con favore, in vista del loro apporto all’economia della città. La Serenissima li pose sotto il controllo della magistratura dei Cinque Savi alla Mercanzia e concesse loro lo spazio aperto del Ghetto Vecchio, dove poterono avere un loro ospedale, una locanda, un ricovero per i mercanti di passaggio e dove poterono esibire la loro ricchezza non solo nella sontuosità del vestire, ma soprattutto nella esuberante decorazione della loro grande sinagoga, la Scola Levantina.
Nelle calli vicine, gli ebrei ponentini, profughi dalla penisola iberica dopo la cacciata del 1492, eredi della grande cultura dell’ebraismo spagnolo medievale, videro in Venezia, come disse uno dei loro più celebri intellettuali, Don Isacco Abrabanel, uno stato perfetto, dove regnava l’armonia dei poteri. Grande merito ebbe per favorire il loro insediamento in città il loro rappresentante Daniel Rodriga, per i vantaggi apportati dalle sue proposte all’economia lagunare; tanto che, in una condizione di favore, essi poterono erigere la più grande sinagoga del ghetto veneziano, la Scola spagnola, dove seguire, come i levantini, il rito sefardita, con propri libri di preghiera, mantenendo per molto tempo anche la loro lingua spagnola.
L'ebreo prestatore di denaro e l’usurahttps://venipedia.it/it/ghetto/lebreo-p ... 80%99usuraL'usura era certamente il fenomeno che maggiormente colpiva la curiosità degli osservatori esterni: l'ebreo prestatore di denaro, chiuso nel proprio banco, costretto all’usura quale unica via d'accesso o di accoglienza nelle città. In particolare, come già detto, nel Concilio Lateranense del 1215 si stabilì l’esclusione da ogni corporazione ed attività degli ebrei, costretti dunque a sopravvivere di prestito su pegno e usura, attività condannate dal cristianesimo ma anche dall’ebraismo.
“Non possiamo possedere né campi, né vigneti, né altre proprietà, - faceva già dire a un ebreo del XII secolo, in un suo Dialogo, Pietro Abelardo - perché non c'è chi possa proteggerci da aggressioni palesi o subdole. E così per vivere ci rimane soltanto il guadagno che otteniamo prestando denaro agli altri popoli, il che ci rende loro ancora più odiosi”.
Sul prestito ebraico si scatenarono ostilità e pregiudizio.
“È ben vero - ripeteva agli inizi del Seicento il rabbino di Venezia Leon Modena - che [...] si sono molto abbassati d'animo (gli ebrei) [...] e s'hanno fatto lecito il pigliar usura [...] perché non hanno in che intramettersi per vivere”.
In quegli stessi anni, ribadiva, con maggior puntualità, l'altro noto rabbino veneziano Simone Luzzatto, riferendosi agli ebrei veneziani: “Fu instituito e imposto a gl'Hebrei che con l'apertura de tre Banchi dovessero soccorrere a' bisogni e urgenze de poveri meschini”.
Il Sanudo riteneva gli ebrei necessari come i panificatori, perché non fu mai istituito, a Venezia, un Monte di Pietà: non contava, ribadiva il Grimani, stessero a Mestre o in ghetto, purché si lasciasse che “i zudei presti a usura”. Un’imposizione, dunque, non una scelta, come ancora nell’Ottocento, riconosceva Carlo Cattaneo: “I nostri avi condannavano l’Ebreo a vivere di usura e poi lo maledicevano come usurajo”.