Ebrei tałiani resorxemento e I goera mondial

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Messaggioda Berto » ven gen 29, 2016 7:06 pm

Ebrei tałiani resorxemento e I goera mondial
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Re: Ebrei tałiani e I goera mondial

Messaggioda Berto » ven gen 29, 2016 7:07 pm

PRIMA DI TUTTO ITALIANI. Gli ebrei romani e la Grande Guerra.
16 dicembre 2014 – prorogata al 21 luglio 2015

http://lnx.museoebraico.roma.it/w/?page_id=4349

Prima del Risorgimento gli ebrei erano considerati del tutto estranei ai valori nazionali e, per questo, esclusi dalla società e dal servizio militare. Molti furono quelli che parteciparono alle battaglie risorgimentali e che cominciarono ad essere considerati, dai loro stessi correligionari, come veri e propri martiri disposti al sacrificio per amore della patria. Si iniziò a sviluppare una forte identità patriottica, pari a quella del resto degli italiani: con il Risorgimento gli ebrei stessi iniziarono ad identificare l’ebraismo come una religione, relegandolo alla sola dimensione privata e familiare. Si può quindi comprendere la forte adesione degli ebrei italiani alla Prima guerra mondiale: la partecipazione alla guerra è vissuta come legittimazione definitiva dell’emancipazione.

Allo scoppio della Grande guerra nel 1915, la popolazione ebraica italiana ammontava a circa 35.000 individui su una popolazione totale di circa 38 milioni di persone.

L’attaccamento della maggioranza degli ebrei all’Italia e ai Savoia era forte e convinta. Non deve quindi stupire il fatto che moltissimi di essi accettarono con grande entusiasmo l’entrata dell’Italia in guerra. Il Vessillo Israelitico, organo di stampa delle comunità ebraiche, intitolò con l’enfasi patriottica del tempo il suo articolo di prima pagina del maggio 1915: “GUERRA!”, incitando gli ebrei a partecipare.

Gli ebrei che parteciparono al conflitto furono circa 5.000; il 50% di essi ricoprono il grado di ufficiali (rispetto al 4% del dato nazionale). Il livello di istruzione più elevato della maggioranza degli ebrei italiani (fatta eccezione per il caso romano), fece sì che essi potessero ricoprire cariche di maggiore importanza e prestigio all’interno dell’esercito. Era necessario infatti, per assumere il grado di ufficiale, aver conseguito almeno un diploma di studi superiori: questo significa che il 50% dei partecipanti ebrei aveva almeno terminato gli studi superiori, se non iniziato (o terminato) quelli universitari. Nella loro totalità erano quindi molto più istruiti rispetto alla media nazionale e il loro grado di scolarizzazione era più avanzato. Sin dal periodo in cui furono rinchiusi nei ghetti, infatti, a tutti i bambini sin dai tre anni veniva insegnato a leggere i testi sacri. Con l’emancipazione e l’equiparazione dei diritti civili, gli ebrei avevano facilmente proseguito la loro formazione scolastica e culturale, costituendo così una classe intellettuale non indifferente nella società italiana.

La regione italiana che ebbe il maggior numero di ufficiali ebrei combattenti (circa 500) fu il Piemonte seguita dalla Toscana (circa 400), dal Veneto e dall’Emilia Romagna (circa 350 ciascuna); solo dopo queste regioni viene il Lazio che, con Roma, poteva contare la comunità più numerosa della penisola.

Gli ebrei romani costituiscono un’eccezione rispetto alla popolazione ebraica italiana: durante l’epoca del ghetto si erano occupati di commercio e continuarono nei secoli ad esercitare mestieri poveri. Nel 1870, anno che segna la fine della segregazione e l’inizio della loro emancipazione, erano ancora in maggioranza piccoli commercianti soprattutto di tessuti, straccivendoli e artigiani, il cui livello di istruzione era piuttosto scarso. Anche se il loro stato era cambiato all’alba della Grande guerra, la composizione sociale rimase più o meno la stessa; quindi non deve meravigliare il fatto che maggior parte di coloro che furono richiamati a partecipare al conflitto furono semplici militari di truppa, con una minoranza di ufficiali.

La Grande guerra costituì un passaggio cruciale nel percorso verso la piena partecipazione degli ebrei alla vita della società italiana. Fu questa, infatti, la prima occasione in cui tutti gli ebrei maschi vennero messi di fronte al loro dovere di cittadini italiani, quali erano diventati a pieno titolo. Il coraggio militare fu la risposta più adatta per coloro che identificavano l’ebraismo con la codardia e l’ostilità verso la patria di adozione.

I caduti ebrei durante la guerra furono all’incirca 420 e si suppone che in totale ne vennero decorati circa 700 (per un migliaio di decorazioni).

Coloro che avevano combattuto durante la Prima guerra mondiale, ancora in vita negli anni ‘30, subirono le Leggi razziali promulgate dall’Italia fascista nel 1938. Buona parte dei 1.600 ufficiali ebrei, viventi negli anni ’40, perirono a seguito delle persecuzioni durante la Seconda guerra mondiale. Molti ex combattenti chiesero la possibilità di essere “discriminati”, cioè esentati dalle leggi fasciste in virtù dell’impegno profuso e delle decorazioni ricevute in seguito alla partecipazione alla Grande guerra. Tuttavia, non molte furono le “discriminazioni” concesse e diversi furono i casi in cui coloro che avevano combattuto per la patria, si videro traditi da queste leggi e in seguito furono deportati e uccisi tra il 1943 e il 1945.
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Re: Ebrei tałiani e I goera mondial

Messaggioda Berto » ven gen 29, 2016 7:43 pm

Gli ebrei italiani nella Grande guerra: prima patrioti, poi discriminati
26/01/2015 Una mostra al Museo ebraico di Roma racconta la partecipazione al conflitto della comunità israelitica. Partirono per il fronte in 5.000, ma il loro patriottismo non li rese immuni dalle leggi razziali del 1938
Roberto Zichittella

http://www.famigliacristiana.it/articol ... inati.aspx

“ Il vostro pensiero deve essere sempre rivolto al Buon Dio, alla Cara nostra Italia, alla famiglia. Sarò contento il giorno che saprò che avete fatto il vostro dovere verso la nostra Cara Patria (e di questo ne sono sicurissimo)”. Sono parole del giugno 1915 scritte da un padre al figlio impegnato al fronte durante la prima guerra mondiale. Lo scrivente è Prospero Anticoli. Il figlio Gabriele, classe 1889, era bersagliere nel 54° battaglione. Sono parole di affetto sincero per la patria. Nel 1916 Gabriele resterà anche gravemente stordito dallo scoppio di una granata, ma riuscirà a recuperare l'uso della parola e nel dopoguerra troverà un lavoro in Comune, a Roma. Eppure anche lui, combattente di guerra, cresciuto in un famiglia di sentimenti patriottici, non avrà sconti. In quanto ebreo, nel 1938 Gabriele Anticoli verrà cacciato dal posto di lavoro e nel 1943 riuscì a fuggire in Sudamerica, salvandosi così dalle persecuzioni razziali e forse anche dalla deportazione.

La sua storia, con foto, lettere e altri documenti d'epoca, è raccontata nella mostra Prima di tutto italiani ospitata fino al 16 marzo al Museo Ebraico di Roma. Così, nell'anno del centenario dell'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale, il Museo rende omaggio agli ebrei italiani che parteciparono al conflitto. Fu una partecipazione convinta, ispirata da organi di stampa come il periodico Vessillo Israelitico, che nel maggio 1915 titolò a tutta pagina “GUERRA!” incitando gli ebrei a partecipare.

Allo scoppio della Grande Guerra la comunità ebraica italiana ammontava a circa 35.000 individui su una popolazione totale di circa 38 milioni di persone. Gli ebrei che parteciparono al conflitto furono 5.000, metà dei quali ricoprirono il grado di ufficiali. Un dato elevato, che si spiega con il fatto che gli ebrei avevano un grado di scolarizzazione più avanzato rispetto alla media nazionale.

I caduti ebrei durante il conflitto furono 420 e circa 700 vennero decorati. Nonostante questo servizio reso alla nazione, gran parte dei reduci (le eccezioni furono pochissime) subirono le leggi razziali promulgate dal Fascismo nel 1938. Gran parte dei 1.600 ufficiali ebrei viventi negli anni '40, morirono per le persecuzioni durante la seconda guerra mondiale.

Esemplare la storia di Mosè Di Segni, il padre di Riccardo, oggi rabbino capo della comunità ebraica romana. “Mio padre”, ricorda il rabbino Di Segni, “nel 1936 fu inviato in Spagna durante la guerra civile come medico militare, ma nel 1938, con le leggi razziste,egli fu radiato dall'esercito ”. Tornato in Italia, Mosè Di Segni riuscì a sfuggire alla deportazione del 1943 rifugiandosi con la famiglia a Serripola, nelle Marche. Lì si arruolò nelle brigate partigiane e nel 1948 fu anche insignito di una medaglia d'argento al valor militare.
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Re: Ebrei tałiani e I goera mondial

Messaggioda Berto » ven gen 29, 2016 7:44 pm

IL CONTRIBUTO MILITARE DEGLI EBREI ALLE GUERRE RISORGIMENTALI E ALLA GRANDE GUERRA

http://digilander.libero.it/fiammecremi ... -ebrei.htm


La grandezza dell'Italia: gli schiavi libici Ebrei

Il nostro racconto sulla emancipazione degli ebrei era cominciato molti capitoli fa quando nel 1848 Carlo Alberto Re di Sardegna .....
per grazia di Dio aveva emancipato i Valdesi ......
e per essere più precisi dopo lo statuto Legge Sineo n. 735

(19 giugno 1848) - Volendo togliere ogni dubbio sulla capacità civile e politica dei cittadini, che non professano la Religione cattolica, Il Senato, e la Camera dei Deputati hanno adottato, Noi in virtù dell’autorità delegataci abbiamo ordinato ed ordiniamo quanto segue:

Art. unico. La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici, ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari.

.... Prendendo in considerazione la fedeltà ed i buoni sentimenti delle popolazioni Valdesi, i Reali Nostri Predecessori hanno gradatamente e con successivi provvedimenti abrogate in parte o moderate le leggi che anticamente restringevano le loro capacità civili. E Noi stessi, seguendone le tracce, abbiamo concedute a que' Nostri sudditi sempre più ampie facilitazioni, accordando frequenti e larghe dispense dalla osservanza delle leggi medesime. Ora poi che, cessati i motivi da cui quelle restrizioni erano state suggerite, può compiersi il sistema a loro favore progressivamente già adottato, Ci siamo di buon grado risoluti a farli partecipi di tutti i vantaggi conciliabili con le massime generali della nostra legislazione. Epperciò per le seguenti, di Nostra certa scienza, Regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo quanto segue:
I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de' Nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici. Nulla è però innovato quanto all'esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette.
Date in Torino, addì diciassette del mese di febbraio, l'anno del Signore mille ottocento quarantotto e del Regno Nostro il Decimottavo.

Venne poi lo Statuto Albertino promulgato il 4 marzo 1848

l'articolo 1 recitava che "la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato", precisando però che "gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi". Al successivo art. 24 si stabiliva: "Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi".

Con questo si mettevano sullo stesso piano Valdesi, Ebrei ed altre confessioni religiose come potevano essere gli ortodossi o i protestanti. La risposta immediata fu una larga partecipazione dei cittadini ebrei in età di servizio militare alla causa nazionale risorgimentale. Prima a
Dall'unità d'Italia in poi molti ebrei entrarono nei ranghi dell'Esercito (oltre la loro percentuale sul totale della popolazione) e negli impieghi pubblici di cui il servizio militare era comunque una branca. Nel 1869 l’esercito italiano aveva già 87 ufficiali e più di 300 soldati israeliti", ossia lo 0,6% degli ufficiali e lo 0,2% dei soldati, rompendo ogni proporzione, se si considera una media nazionale di 0,1% ebrei sull’intera popolazione. L'estrazione borghese e l'istruzione li privilegiavano rispetto ai ranghi minori per il ruolo di ufficiali. Solo nel 1860 entrarono nelle Scuole Militari 28 ebrei, fra i quali Giuseppe Ottolenghi, che raggiungerà i massimi gradi ed immediatamente prima di morire l’incarico di Ministro della Guerra tra il 1902 ed il 1903. L’Annuario del 1895 dell’Esercito Italiano conteneva circa 700 ufficiali ebrei.

La Prima Guerra mondiale conterà 21 generali ebrei.

insorgere in quel marzo del 1848 è Milano (18-22); sulle barricate combatte un ragazzo di 15 anni: il mantovano Ciro Finzi, ebreo, che con ardimento si mette a capo dei rivoltosi, mentre Giuseppe Finzi di Rivarolo ha un comando militare (in seguito organizzerà i bersaglieri volontari mantovani), e giornalisti ebrei, tra cui il triestino Giuseppe Revere, scrivono articoli infiammati per esortare i giovani alla lotta. A Torino i giovani, ebrei partono per il fronte, esortati dal rabbino stesso; e insieme ad ebrei provenienti da altre città, formano la VII Compagnia bersaglieri ebrei, che prende parte alla battaglia della Bicocca nella prima guerra d’Indipendenza

(A partire dal 1848 si arruolarono nell'esercito sardo come volontari 235 ebrei, saliti a 260 nella campagna del 1859).
Estrapolo da "Il contributo militare degli Ebrei italiani alla Grande Guerra Conferenza tenuta al Circolo Ufficiali di Bologna dal Dott. Pierluigi Briganti il 9 dicembre 2010. Monte Grappa 15 giugno 1918

Le armate austriache, sebbene validamente contrastate dalle nostre artiglierie comandate dal Brigadiere Roberto Segre, avanzano su tutto il fronte e sul Monte Grappa conseguono insperati successi. A fine mattinata del 15 le colonne austriache occupano il Col del Miglio, il Col Moschin, il Col Fenilon ed il Col Fagheron, capisaldi della linea di resistenza italiana. Nel volgere di meno di 24 ore la vitale linea di resistenza sul versante occidentale del Grappa è persa dalle truppe italiane ma riconquistata dal IX Reparto d'Assalto del maggiore Giovanni Messe. Di questo glorioso reparto di Arditi facevano parte due ebrei: il Tenente Umberto Beer di Ancona decorato 4 volte di medaglia d'Argento e la medaglia d'Oro Dario Vitali, unico dei cinque ebrei insigniti di questa ricompensa a sopravvivere al conflitto. Beer dopo la guerra entrò in servizio attivo. Nominato maggiore nel 1934 per meriti eccezionali, fu nominato addetto militare a Tangeri presso il locale consolato (In questa sede rinvenne copie di dispacci concernenti il soggiorno di Giuseppe Garibaldi che pubblicò sul periodico di Ezio Garibaldi “Camicia Rossa” nel novembre 1938, mese in cui il gran consiglio del fascismo emanò le disposizioni per la rimozione dal pubblico impiego anche degli ufficiali dell’esercito) e, nel 1935, trasferito al 6° Reggimento Bersaglieri nella vostra Bologna. Nominato aiutante di campo onorario del Re, partecipò alla Guerra di Spagna come tenente colonnello nel Servizio Informazioni (con il nome di copertura Ugo Bencini) ricevendo altre decorazioni. Posto in congedo assoluto a seguito delle leggi razziali, emigrò in Brasile dove morirà nel 1980. Allo scoppio della grande Guerra nel 1915, la popolazione ebraica italiana ammontava a circa 35.000 individui su una popolazione totale di approssimativamente 38 milioni di persone. In tutti gli scritti che parlavano di ebrei e Grande Guerra si riportava 261 caduti, un migliaio di decorati e due medaglie d'Oro, concesse a due Caduti: Giulio Blum*, il più vecchio decorato di medaglia d'Oro tra tutti i combattenti con i suoi 62 anni ed il 17enne Roberto Sarfatti, figlio di Margherita Sarfatti, il più giovane. Approssimativamente, come detto, la popolazione ebraica in Italia allo scoppio della guerra ammontava a 35.000 individui, contro circa i 38 milioni della popolazione italiana nel suo complesso. Con grande approssimazione quindi, la proporzione era di un ebreo ogni mille e cento italiani. Tenuto conto allora che gli italiani che parteciparono al conflitto furono durante tutta la sua durata circa 5 milioni duecento mila e che gli ebrei erano perfettamente equiparati a tutti gli altri cittadini italiani, rispettando questa proporzione, dobbiamo dedurne che gli ebrei partecipanti furono più o meno 4.800. A questo numero però bisogna aggiungere gli irredenti** ebrei giuliani che, a somiglianza degli altri irredenti italiani, anziché accettare di combattere sotto l'Austria, disertarono ed accorsero volontari nell'esercito italiano.

*Ten. BLUM GIULIO nato a Vienna Comandante 1ª compagnia della brigata "Salerno" M.O.V.M. alla memoria. Già Decorato dell’argento al V.M. nel 1915 sul monte Fortin venne promosso al grado di sottotenente per meriti di guerra. Fu tenente poi del 32° regg. artiglieria da campagna e quindi decorato dell’oro.

"Soldato volontario di guerra a 62 anni, in breve raggiunse per la costante devozione al dovere, per l’inestinguibile entusiasmo, per la prova di valore offerta e per il sangue due volte eroicamente versato, il grado di tenente. Fremente per patriottismo, del più alto spirito guerriero, chiese ed ottenne di partecipare all’assalto con i fanti di una brigata. Postosi alla testa di un forte gruppo di valorosissimi da lui nobilmente arringati e che lo avevano con entusiasmo acclamato degno di guidarli alla contrastata vittoria, egli li precedette con la bandiera in pugno, incitatore magnifico ed eroico. Cadde colpito a morte, al grido di: Savoia !." Q. 145 sud, pendici settentrionali dell'Hermada, 23 agosto 1917. Data conferimento: 22/11/1917

**Fra gli Ebrei irredenti i triestini eccellono non solo nel campo delle lettere e delle scienze, ma si distinguono anche come patrioti. Questo loro atteggiamento si accentuò quando, entrato il Veneto a far parte dell’Italia nel 1866, Trieste rimase isolata, senza un’Università italiana e la comunità ebraica, divisa dalle altre del Regno, si fa protagonista dell’irredentismo. Gli Ebrei triestini, che a cavallo dei due secoli XIX e XX sono oltre cinquemila, pur essendo in gran parte di origine straniera, combattono in prima linea nella lotta irredentistica per le stesse ragioni per cui gli Ebrei italiani hanno preso parte alle lotte risorgimentali e prenderanno parte anche al grande conflitto. Solo per citare i nomi più importanti oltre a quelli già citati: Guido Brunner, Giacomo Venezian, Giulio Ascoli…
Posso stimare in circa 300 il numero di questi partecipanti. Inoltre bisogna tener conto che accorsero a combattere per l'Italia numerosi ebrei di origine italiana residenti nel Nord Africa (Egitto e Tunisia), nella Turchia e nella Grecia, cittadini quindi considerati come stranieri e che non rientravano nel computo della popolazione ebraica italiana. Posso stimare che anche questi partecipanti fossero circa 300. Quindi: 4.800 più 300 più 300, dà un totale grossomodo di 5.500. Di questi 5.500 partecipanti ne ho censiti ed elencati 3.751, cioè circa il 70% del totale, suddivisi in 2.409 ufficiali (Generali, superiori ed inferiori) e 1.342 sottufficiali e militari di truppa. Quindi, come si vede, il numero degli ufficiali censiti è di molto superiore a quello degli altri militari ebrei. La regione italiana che ha dato il maggior numero di ufficiali ebrei combattenti è stata iì Piemonte con circa 500 ufficiali, seguita dalla Toscana (circa 400), dal Veneto e dall'Emilia Romagna (circa 350 ciascuna) solo dopo queste regioni viene il Lazio che, con Roma, poteva contare la comunità più numerosa con i suoi 8.000 individui.
Nel 1939, dopo l’emanazione delle leggi razziali, verranno posti in congedo assoluto: 24 Ufficiali Generali Ebrei in Ausiliaria o nella Riserva, provenienti dal Servizio Attivo già partecipanti alla Grande Guerra e 146 ufficiali ancora (nel 1939) in SPE nell'Esercito, nella Marina e nell'Aeronautica: di essi una sessantina avevano partecipato al primo conflitto. Quindi circa 85 ufficiali che già all'epoca della Grande Guerra erano in Servizio Attivo Permanente (S.A.P.) Globalmente, dei 3.751 partecipanti reperiti, si può supporre che coloro ancora in vita nel 1938 fossero circa 2,500. Tra questi, ne perirono, perché deportati o a vario altro titolo, ben 237, cioè quasi il 10%. A nulla valsero le benemerenze da loro acquisite nel servire la Patria in guerra.

L’espressione "Terre irredente" fu coniata dal romanziere Vittorio Imbriani, da essa derivò il nome del movimento politico sorto per rivendicare la liberazione dei territori ancora sottomessi all’Austria, come Trieste e Trento

Così scriveva il maggior giornale ebraico “Il Vessillo Israelitico” del 31 maggio 1915, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia: “Tutto l’Italia ha il diritto di pretendere da noi e tutto noi le daremo … unica volontà essendo che la bandiera italiana sventoli sulle terre irredente … (perché è l’ora) di dimostrare che il sentimento di gratitudine è in noi profondamente radicato…”
Bruno Pisa (S.Ten. nella 425a compagnia mitraglieri del gr. divisionale 28a Div., XIII° C.d’A, IIIa armata

Bruno era nato a Ferrara il 29 Ottobre 1897 e studiava alla facoltà di giurisprudenza di Ferrara. Era uno dei quattro figli di Luigi Pisa (industriale in articoli in ferro). Il 1° Ottobre 1916 Bruno Pisa entrò nella scuola allievi ufficiali di Caserta da cui ne uscì con il grado di aspirante ufficiale il 10 marzo 1917. Come primo servizio fu assegnato al 49° Fanteria fino al 20 maggio. Con la nomina a sottotenente fu destinato alla 425a cp. mitraglieri. Ten. Gino Cavalieri,ufficiale presso il comando della 28a divisione così narra i fatti del 21 e 22 agosto: “… nei giorni precedenti alla morte il povero Bruno appartenne sempre alla 425a comp. e non mutò di comp. finchè non vi era azione effettivamente la sua comp. aveva qui (Ronchi di Monfalcone) un servizio antiaereo ed egli vi era partecipe. Il 16 e il 17 che precedettero la partenza per la linea Bruno era allegro e calmissimo. Le due sere suddette ci radunammo fra amici alla sede della comp. brindando alla vittoria. La sera del 17 egli si portò ad una quota diversa dalla quota ove io mi recai per il combattimento, la mia essendo più dominante, la sua più a valle. Il 18 vi fu azione prevalente di artiglieria e fummo tutti battutissimi da tiri violenti. Anche la sua comp. ebbe perdite. Bruno si era separato da me con un bacio ed un ricordo a Ferrara. Il 19, il 20 e il 21 la comp. fu quasi di riserva; il 21 si portò più avanti e partecipò a(l) combattimento d’arme propria. Vi fu qualche perdita dolorosa fra cui quella del com.te la 419a ten. Pistilli. Bruno era tranquillo e sereno. Il 22 alle II ricevette la posta in linea e ne parve contento. Così mi ha riferito il capitano. Verso le 13 la sua comp. fu comandata a rinforzare le truppe di assalto di una quota contestata. Doveva attraversare in pieno giorno e sotto intensissimo fuoco (una) zona scoperta. Bruno alla testa dei suoi compiè sereno e benone il tragitto. Giunto al luogo di assegnazione la sua sezione fu investita da raffiche violente. Allora egli tranquillissimo volle sporgersi dalla trincea per vedere come andava il proprio tiro e per regolarsi sulla provenienza del tiro nemico. Fu così che cadde colpito a morte. La rivoltella che teneva in mano pure gli fu spezzata da una scheggia di proiettile tanto che una mano era sanguinante, ma già la pallottola di mitragliatrice austriaca lo aveva ucciso”.….Il 13 ottobre 1918 il Ministro della Guerra conferisce a Bruno Pisa l’argento al V:M:, a cura di Stefano Chierici - collaborazione di Enrico Trevisani Comune di Ferrara Ass.Ricerche Storiche “Pico Cavalieri

Of the approximately 2,000 Jews who fought against the German and Fascist forces in the ranks of the partisans from 1943 to 1945, over 100 fell in battle, and five won the highest medals for bravery. Others served in the Allied armies or intelligence services.

http://www.centrostudimilitari.it/Confe ... -12-06.pdf contributo militari ebrei nei conflitti http://www.monarchia.it/news_polito_ebrei.html

EBREI SCHIAVI !?

Riporto a fianco una misconosciuta esperienza di lavoratori Libici, Musulmani ed Ebrei nelle fabbriche italiane nell'ambito della Mobilitazione Industriale

passi da -Per la Patria Italia di Francesca di Pasquale
ESPERIENZE DI LAVORO E DI VITA NELLE LETTERE DEGLI OPERAI COLONIALI DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE

«NOI PRIMA ERAVAMO A TRIPOLI»
A fine maggio del 1917, ossia poco dopo la prima richiesta di «manodopera coloniale» da parte dell’Ansaldo, il governatore diede il via al reclutamento degli arabi da inviare in Italia. Le condizioni offerte per l’ingaggio erano una paga da 3 a 3,50 lire al giorno, di cui una lira da corrispondersi alle famiglie tramite il governo, l’assicurazione contro gli infortuni, alloggi «conformi alle abitudini indigene», l’assistenza medica e «il viaggio gratuito»....I 200 ebrei libici autori della lettera, a differenza dei musulmani, poterono fin da subito contare su una rete di supporto, costituita dalle comunità ebraiche libica e italiana, attraverso l’intermediazione del rabbino di Tripoli Nahum e del presidente del comitato delle comunità israelitiche d’Italia, Angelo Sereni. Il 6 settembre 1917, prima dell’arrivo degli operai in Italia, Nahum aveva già informato Sereni del gruppo di tripolini in procinto di giungere nel nostro paese, chiedendogli di adoperarsi affinché venisse loro garantito, fra l’altro, sia il riposo sabbatico e durante tutte le altre festività religiose ebraiche sia un utilizzo dei lavoratori secondo le competenze di ciascuno. Partito il primo scaglione, in rapida successione seguirono gli altri. La maggior parte di loro fu destinata alle industrie “ausiliarie”, ma un discreto numero lavorò alle dirette dipendenze dello stato italiano in strutture pubbliche, quali il commissariato combustibili o quello della aeronautica. La percentuale maggiore della manodopera ingaggiata in Libia, ben l’87%, fu inviata nelle fabbriche del triangolo industriale, ma, complessivamente, la loro presenza interessò tutto il paese, dal nord al sud, dalla provincia di Cuneo a quella di Palermo.
«A DORMIRE COME LE BESTII»
(ndr: non era andata come sperato, e come prevedibile per un paritetico trattamento con gli operai italiani o con gli ebrei italiani)
Nella seduta del 25 ottobre 1917, il consiglio di amministrazione della Fiat autorizzò la costruzione di 9 baracche di legno per «accantonare 500 operai libici». Costruzioni simili furono approntate a Sesto San Giovanni a spese del comune, a Sampierdarena da parte dell’Ansaldo, così come in tutti gli altri comuni dove giunsero i libici. Purtroppo non disponiamo di dati sulla dimensione di questi baraccamenti e sul numero di operai che furono destinati in ognuno di essi. Sappiamo che gli alloggi erano mal riparati dal freddo e, almeno in un primo momento, forniti di sola paglia quale giaciglio. Soltanto dopo l’intervento del rabbino di Torino la situazione migliorò e gli operai furono forniti di brande di legno. Nel complesso le condizioni di vita furono causa di malcontento per la militarizzazione imposta agli operai non soltanto durante le ore di lavoro, ma in ogni momento della loro giornata. Il lavoro in fabbrica, evidentemente, costituì una assoluta novità per gli arabi ingaggiati, che erano prevalentemente contadini. Per questo motivo i libici furono impiegati essenzialmente per lavori di manovalanza, quali il trasporto e la fucinatura dei proiettili. La scarsa attitudine al lavoro in fabbrica fu uno dei motivi che, dopo qualche mese dall’inizio dell’«esperimento», indusse alcune fabbriche a rifiutare la manodopera libica, soprattutto per quei lavori che necessitavano di operai specializzati. Rifiutò l’impiego dei libici, ad esempio, la Società alti forni, fonderie e acciaierie di Terni per la costruzione di una condotta di derivazione dell’acqua sostenendo che gli arabi non potessero essere adatti allo scopo «sia per il genere di lavoro da portare a compimento, che richiede personale di mestiere, sia per la poca resistenza fisica di quella gente ed infine per l’assoluta impossibilità di risolvere la questione dell’approvvigionamenti [sic] ed alloggi per loro». Le limitazioni del loro impiego indussero gli stessi funzionari della mobilitazione industriale a rilevare il fallimento dell’«esperimento» per sopperire alla carenza di manodopera. Una certa ritrosia ad assumere libici era legata, forse, anche alle loro condizioni sanitarie (di partenza). Emblematica, per l’intensità e le reazioni delle autorità italiane, fu la grande rivolta del settimo scaglione di operai ebrei, ossia gli autori delle nostre lettere. Cominciata a novembre del 1917, la sollevazione ebbe origine, inizialmente, per il rifiuto opposto dagli operai di lavorare durante le festività religiose, secondo quanto pattuito (Venerdi per gli arabi, Sabato per gli ebrei). ndr. le cose poi degenerarono tanto rapidamente da arrivare alle frustate
Mentre gli scaglioni in Italia davano vita alle proteste, il governatore di Tripoli cercava di ottenere lo sperato contributo alla «pacificazione» invitando gli operai e le loro famiglie allo scambio di lettere. Questa corrispondenza avrebbe dovuto agevolare i nuovi reclutamenti, far conoscere agli “indigeni” in Libia le grandezze dell’Italia
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Re: Ebrei tałiani e I goera mondial

Messaggioda Berto » ven gen 29, 2016 7:45 pm

Anche al fronte vollero sentirsi uguali a tutti gli altri: soldati, eroi, ma soprattutto cittadini
A novanta anni dalla fine della prima guerra mondiale, si scopre il contributo dato dagli ebrei
LIA TAGLIACOZZO
Saturday, 03 January 2009

http://www.shalom.it/J/index.php?option ... &Itemid=94

Sono passati novanta anni dalla conclusione della prima guerra mondiale e i media, all'approssimarsi del 4 novembre, vi hanno dedicato quest'anno particolare attenzione. Così la guerra '15-'18, che ebbe un tale carico di morte e distruzione da essere denominata dai contemporanei “grande”, è tornata all'attenzione delle cronache con il suo carico di significati ambivalenti, indicativa fra molti, almeno per la storia ebraica, la relazione tra patriottismo e nazionalismo. Nell'ambito di questa rinnovata considerazione va letta anche la visita del ministro Ignazio La Russa al Tempio Maggiore di Roma per deporre una corona alla lapide in ricordo dei caduti ebrei della Prima guerra mondiale. Ma è un omaggio che rischia di sorprendere la stessa collettività ebraica: “Si tratta di riflettere sulle ragioni per le quali fino a poco fa gli stessi ebrei italiani hanno dimenticato la prima guerra mondiale” - a ragionarvi con la pacatezza dei toni che lo contraddistingue è Mario Toscano, professore all'Università La Sapienza di Roma, che ha dedicato molti studi alla ricostruzione della vicenda ebraica di quegli anni sia in relazione alla vita interna delle comunità ebraiche che analizzandone i collegamenti coi grandi nodi della storia nazionale.

“La prima guerra mondiale ha rappresentato un passaggio importante per la storia ebraica - prosegue Toscano - si è trattato, infatti, della consacrazione da parte dell'ebraismo italiano del processo d'integrazione nazionale. Attraverso la partecipazione alla guerra, infatti, gli ebrei italiani ritengono di sancire sul piano etico e materiale la propria appartenenza italiana, di completare il loro processo d'integrazione a cinquanta anni dalla fine del ghetto, di saldare il debito di gratitudine verso quella terra e quei popoli che li avevano riconosciuti eguali tra eguali”. Per avvertire il clima del tempo Toscano suggerisce una scorsa ai giornali ebraici e, infatti, un articolo apparso sul “Il Vessillo Israelitico” del 31 maggio 1915, all'indomani dell'entrata in guerra dell'Italia, riporta: “Tutto l'Italia ha il diritto di pretendere da noi e tutto noi le daremo… unica volontà essendo che la bandiera italiana sventoli sulle terre irredente… (perché è l'ora) di dimostrare che il sentimento di gratitudine è in noi profondamente radicato…”.

Lo zelo patriottico dell'ebraismo italiano testimonia il desiderio di dimostrare indubitabilmente i sentimenti e la nobiltà dei propri sentimenti italiani. Il tutto, va ricordato, in un contesto in cui il legame e la pratica dell'ebraismo veniva sbiadendosi, soffocato dall'urgenza di una piena nazionalizzazione e di un'irrinunciabile modernizzazione in cui l'ebraismo era percepito come un'eredità arcaica da confinarsi nel chiuso delle relazioni affettive. “Si tratta di una partecipazione patriottica che si manifesta con alcuni schemi significativi - prosegue Mario Toscano - e con temi comuni a quelli dell'interventismo democratico, in essi la guerra vi appare come la quarta guerra d'indipendenza, il coronamento dell'emancipazione risorgimentale. Tra i volontari di parte ebraica ci sono in particolare esponenti della nuova borghesia ebraica del dopo emancipazione, e vi sono anche ebrei di cittadinanza italiana provenienti da altri luoghi, per esempio da Alessandria d'Egitto. Alcuni hanno addirittura una scarsa conoscenza della lingua italiana”.

Una pubblicazione del 1926 riporta i dati della partecipazione ebraica alla guerra: sono 261 i giovani caduti ai quali devono aggiungersi due medaglie d'oro, 207 d'argento, 238 di bronzo e 28 encomi solenni. E a descrivere l'impegno ebraico basta la lettura dell'articolo “La guerra d'Italia e l'ebraismo” di S. Colombo, pubblicato su “Riforma Italiana” il 15 novembre 1916, in esso l'idea di una guerra che prosegue l'emancipazione risorgimentale e il viaggio verso il progresso delle democrazie liberali vi appare di assoluta evidenza: “Essa infatti (la guerra) è la continuazione logica, è epilogo naturale delle guerre precedenti (…), è l'Italia preparata dall'abilità diplomatica di Cavour, è l'Italia conquistata dal braccio valoroso di Garibaldi e di cento altri (…) ma è anche, prima e soprattutto, l'Italia ideata e vagheggiata, pensata profondamente e veramente divinata dalla mente profetica ed essenzialmente ebraica di Giuseppe Mazzini…“.

Vale ricordare che Mazzini muore nell'ebraica casa Rosselli di cui gli esponenti della generazione nata fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del nuovo secolo sono Aldo, Nello e Carlo. Aldo muore da volontario nella prima guerra mondiale. Nello, protagonista del Congresso giovanile ebraico di Livorno del 1924, con il fratello Carlo sono importanti figure della antifascismo e furono uccisi a Bagnoles-de-l'Orne il 9 giugno 1937 da sicari di estrema destra su ordine dei vertici del regime fascista. Ma una riflessione sul percorso culturale dei fratelli Rosselli porterebbe fuori tema, basti segnalare il legame che unisce il Risorgimento alla partecipazione ebraica alla Prima guerra mondiale e successivamente alla Resistenza che è componente decisiva dell' identità ebraica del secondo dopoguerra.

In quegli anni la partecipazione ebraica alla guerra è vista come un dovere patriottico tale che rare sono le voci che si alzano a indicare maggior cautela e, forse, maggior lungimiranza. “Ogni individuo ebreo faccia il proprio dovere per la terra in cui vive e che è la sua patria - scrive Dante Lattes su “Il Corriere Israelitico” il 15 luglio del 1915 ma non neghi la realtà e l'urgenza generale del problema ebraico che al di sopra - e non contro - di tutte le patrie europee chiede la massima e più pronta vigilanza degli israeliti di tutte le terre, se essi vogliono preservare quella che si chiama idea, religione, razza ebraica dalla lor morte”. E aggiunge: “il problema ebraico s'identifica oramai con un problema territoriale, come quello di tutte le genti, anzi in un problema palestinese”.

“Da parte di alcuni attori del mondo ebraico - segnala ancora Toscano - come i sionisti e i religiosi promotori dei convegni giovanili ebraici del 1911 e 1914, vi è inoltre la forte consapevolezza che gli ebrei combattono su tutti i fronti. Vale segnalare per esempio il titolo del fondo de “La settimana israelitica” del 7 agosto 1914: “Nell'ora della nostra tragedia duecentomila ebrei in campo gli uni contro gli altri” però, indistintamente, accanto all'invito a questa consapevolezza, tutti gli ebrei italiani avrebbero fatto lealmente e onestamente il proprio dovere di cittadini.

Anche i giovani sionisti fanno il loro dovere e sono spesso ufficiali e sottufficiali, ma c'è un ulteriore rilievo da segnalare: la convergenza, in particolare con l'approssimarsi della fine della guerra, tra la posizione dei giovani e quella della dirigenza dell'ebraismo italiano. La stessa dirigenza che elabora, fondamentalmente ad opera di Sereni e Sacerdoti, e tra lo scetticismo generale, la proposta di creare il rabbinato militare: un'iniziativa con una forte logica politica che si modella sull'esempio dei cappellani militari. I rabbini militari non possono fare molto: si muovono su un fronte enorme, non posseggono elenchi dei nomi, eppure iniziano a svolgere un'opera umanamente ed ebraicamente significativa.

A scorrere nuovamente i documenti del tempo, in questo caso una relazione dei rabbini militari Aldo Lattes e Roberto Menasci e gli articoli apparsi su “Il Vessillo Israelitico” e l'“Israel”, la descrizione del Kippur a Verona nel 1916 suscita ancora commozione: sono numerosissimi i militari provenienti direttamente dal fronte che vi partecipano “ben si accorgevano che li circondava in quel giorno e li confortava l'affetto di un'altra famiglia - la grande famiglia d'Israele - di altri cari, di altri amici, di un'altra comunità, ma pur identica per sentimento a quella che li aveva veduti nascere (…) e si elevavano con la stessa solennità alla Maestà di Dio, Uno e ovunque identico a se stesso: e allora si sentivano tutti fratelli”. “A Nehilà (il rabbino militare) li ha raccolti intorno a sé per impartire loro la berachà. In quel momento abbiamo veduto affluire e raccogliersi sotto il talled del rabbino Lattes, anche gli ufficiali, e chinarsi tutti in direzione delle sue braccia, quasi per timore di venire esclusi e staccati dai loro fratelli. Fu una scena commuoventissima e superiore ad ogni descrizione: tale che lascerà in noi tutti, dolcissimo e affettuoso ricordo per molti anni”.

“Vi è un ulteriore elemento significativo - prosegue ancora Mario Toscano, segnalando un altro punto di rilievo - la classe dirigente ebraica che si trova a gestire questa fase si è formata nel clima dello stato liberale e si trova invece ad agire in un contesto completamente nuovo che è quello della nascente società di massa. E diventerà evidente nel 1917 a ridosso e dopo la dichiarazione Balfour (con la quale il ministro degli esteri inglese Arthur Balfour dichiara di vedere con favore la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina ndr) quando si passa ad un'azione maggiormente determinata per valorizzare la questione della nazionalità ebraica. Con l'approssimarsi della fine della guerra si realizza l'integrazione alla nazione italiana e si accentuano talune forme di allontanamento dall'ebraismo, contemporaneamente, si aprono nuove consapevolezze sul mutato scenario internazionale. Si tratta - conclude lo storico - di prospettive immerse nel clima di fiducia del dopoguerra quando sembra che abbia vinto la democrazia. Basteranno invece pochi anni per scoprire che non è vero”.

Indagare quindi sui temi legati alla vicenda ebraica di quegli anni significa anche interrogarsi sul perché per decenni non se ne è più ragionato. Dall'attuale stadio degli studi è lecito presumere che indagare la memoria della partecipazione ebraica italiana nella prima guerra mondiale significhi ricercare anche il perché di una amore tradito. Vi è infatti una continuità di temi che unisce l'ardore patriottico dei giovani soldati ebrei nel '15- '18 con il tradimento consumato ai loro danni solo venti anni più tardi. Un tradimento che la quasi totalità degli ebrei accolse attonita e stupita. Come a dire: attenzione a quale patriottismo ci si sposi.
Last Updated ( Sunday, 04 January 2009 )
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Re: Ebrei tałiani e risorxemento o mortamento

Messaggioda Berto » lun feb 22, 2016 10:38 am

Cesare Rovighi, l’ebreo modenese eroe del Risorgimento
20 febbraio 2016 Riccardo Ghezzi

http://www.linformale.eu/cesare-rovighi ... sorgimento

Ebrei e Risorgimento: un connubio che non è mai stato evidenziato come meriterebbe. La partecipazione degli ebrei italiani alla causa del Risorgimento è infatti stata totale e il contributo di sangue particolarmente rilevante, avendo essi combattuto nelle guerre di indipendenza con un fervore non usuale per quella che era considerata “una minoranza”.
Uno di questi è Cesare Rovighi, ebreo modenese, tra gli uomini con più decorazioni di tutto il Risorgimento, ferito in battaglia a Solferino. Amico personale di Giuseppe Garibaldi, da giovane è stato uno dei cinque insorti che si sono recati di persona dal tirannico duca di Modena Francesco IV (1779-1846) per chiedergli una Costituzione liberale.
Scrive Gina Formiggini nel suo documentato libro Stella d’Italia Stella di David (edizioni Mursia), a pagina 27


Insieme ad altri quattro volenterosi aveva avuto il coraggio di recarsi personalmente dal duca di Modena Francesco IV per chiedergli la Costituzione: questo gesto gli sarebbe valso il capestro, se non fosse subito fuggito all’estero. L’episodio è inciso nella lapide apposta nel Palazzo Reale di Modena, ora sede della Scuola Militare, ove lo stesso Rovighi insegnò arte e storia militare col grado di colonnello


Medico oltre che soldato, ufficiale onorario del re, ha ricoperto numerosi incarichi pubblici. Dopo l’unità d’Italia, come medico volontario, si è speso per curare le persone afflitte da colera andando in Basilicata durante la quarta epidemia, nel 1866.
La sua giubba da combattimento è conservata all’interno del Museo del Risorgimento di Modena: ancora visibile lo squarcio provocato dalla pallottola che l’ha ferito a Solferino nel 1859.

cesare rovighiCesare Rovighi (foto a sinistra) è nato a Modena nel 1820 da una famiglia ebraica osservante. Ha frequentato il Collegio rabbinico di Padova, trasferendosi e laureandosi poi a Parma.
Nel 1848 è uscito dalla scuola militare con il grado di capitano, collaborando con il governo provvisorio modenese dopo la momentanea fuga del Duca Francesco V, successore di Francesco IV. L’anno successivo è entrato nell’esercito piemontese, distinguendosi per coraggio e patriottismo nelle tre guerre di indipendenza, dal 1848 al 1866, e partecipando a tutte le principali battaglie risorgimentali.
Dopo la battaglia di San Martino e Solferino nel 1859, in cui è stato ferito, è stato decorato con una medaglia d’argento al valore militare, cui si aggiungerà quella di bronzo al valore civile.
E’ stato anche autore di libri di storia militare, tra cui saggi sul generale Alfonso Lamarmora, il generale Cialdini e il Duca di Genova, opere sull’ordinamento della milizia nazionale e la storia dell’arte militare.
All’età di 25 anni, nel 1845, aveva fondato a Parma “Rivista Israelitica. Giornale di Morale, Culto, Letteratura e Varietà”, primo vero giornale ebraico italiano.

Ha spostato Amalia Pincherle, dama di compagnia della regina d’Italia Margherita. E’ morto nel 1890, all’età di 70 anni. Di lui, Giuseppe Garibaldi ha detto: “Rovighi, voi avete combattuto da vero Cavaliere, con la penna e con la spada”.

Cesare Rovighi è uno dei più fulgidi esempi del patriottismo della comunità ebraica italiana. In nome di valori quali libertà, unificazione, liberazione ed emancipazione politica, tanti ebrei italiani hanno combattuto non solo nelle guerre di indipendenza ma anche nella prima guerra mondiale e nella guerra di Spagna. Non in quanto ebrei, ma in quanto italiani, in attesa della sperata liberazione civile che potesse permettergli di uscire dai ghetti, essere finalmente cittadini con pari diritti e doveri, professare liberamente la propria fede.
Gli ebrei italiani in quel periodo erano molto devoti alla Patria, tanto da essere considerati anche all’estero piuttosto distanti dal sionismo di Herzl.


Mi a digo:

Io come veneto non amo certo il cosidetto "risorgimento" italiano che in realtà è stato più un "mortamento"; a noi veneti lo stato italiano ha portato soltanto miseria e diaspora post unitaria, degrado morale (l'Italia è il paese più corrotto dell'occidente si pensi soltanto ai casi romani come quello di Mastrapasqua), mancanza di libertà e di vera democrazia (vedasi la casta e la sua costituzione), distruzione e morte (si pensi alla prima guerra mondiale combattuta in Veneto tradendo e aggredendo l'Austria per rubargli terre mai state italiane e alla seconda guerra mondiale con l'invasione della Jugoslavia e il maltrattamento degli slavi che hanno provocato le foibe e l'esodo dei veneti istriani). Io vorrei essere indipendente dallo stato italiano in un'Europa federale come la Svizzera. Gli ebrei d'Italia hanno sempre Israele come rifugio, male che vada; noi veneti abbiamo soltanto la nostra terra veneta che per noi è come Israele per gli ebrei. Io per l'Italia non darei mai la vita ma per il mio Veneto sì. Se mi chiamano italiano mi offendo, perché io sono veneto e della cittadinanza italiana ne farei volentieri a meno. Noi veneti siamo figli della nostra storia e dell'Europa non certo figli di Roma e della lupa. La mia Patria non è l'Italia e il mio Israele è il Veneto.

L'Informale
Raccontare le gesta degli ebrei italiani che hanno creduto nel Risorgimento e nell'Unità d'Italia non significa schierarsi a favore del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, dibattito che esula dai nostri scopi. Solo sottolineare ed evidenziare quanto una cosiddetta minoranza fosse in realtà integrata e patriottica, disposta a versare il proprio sangue per una causa. Troveremo presto esempi di ebrei veneti, probabilmente patrioti veneti, non solo per "par condicio"

Mi a digo:
Si alcuni ebrei veneto veneziani fecero parte della Municipalità Democratica istituita da Napoleone:
http://www.storiadivenezia.net/sito/sag ... eziani.pdf
http://www.treccani.it/enciclopedia/l-u ... Venezia%29
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Re: Ebrei tałiani resorxemento e I goera mondial

Messaggioda Berto » lun feb 22, 2016 11:03 am

L’antiebraeixmo e l’antisemetixmo de çerti veneti marciani
viewtopic.php?f=167&t=1338


Marino Berengo - Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento
http://www.storiadivenezia.net/sito/sag ... eziani.pdf
estratto dal volume ITALIA JUDAICA – 1989.
“Gli ebrei in Italia dalla segregazione alla prima emancipazione”
Atti del III Convegno Internazionale – Tel Aviv 15-20 giugno 1986

Alla fine del Settecento entro i confini de l ghetto di Venezia risulta stanziata una popolazione che da alcuni decenni è stabile in torno ai 1600 abitanti e che ha conosciuto, in manifesta concomitanza con la ricondotta del 1777, una flessione di poco inferiore al 10% che, negli anni seguenti, si viene lentamente riassorbendo.

Sull’origine nazionale degli ebrei veneziani l’Anagrafe del 1797 ci appare dunque molto sicura; e la particolare attenzione che dedica ai capifamiglia , ci suggerisce di concentrare su di essi il nostro approccio demografico. A ssai minore fiducia ci sembra di poter riporre nelle qualifiche professionali, perché gli ebrei, esclusi dalle corporazioni, dalle professioni liberali e dal pubblico impiego, esercitano mestieri e attività difficili da definire: il diligente e accurato scrivano Saul Mortera rispecchia fedelmente nel suo registro il ristagno sociale provocato dalla legislazione aristocratica.
In effetti, degli 85 “senseri di strazze” (o “strazzeri” o “bottegheri di strazze” o simili), dei molti che sono
qualificati con un generico “compra e vende” o “vive d’industria” è facile supporre una molteplice rete di
attività integrative. Li divide dai “benestanti negozianti e bottegai” un confine che era nitido agli occhi del contemporaneo Mortera, ma riesce assai più fluido per noi. Se non abbiamo dubbi che i Treves, i Vivante, i Curiel, i Todesco, i Malta, che scambiano grandi partite di frumento, zucchero, olio, generi coloniali, ma anche di drappi e di panni con Corfù, Alessandria, Livorno e gli altri porti mediterranei, sono grandi mercanti
internazionali, la densa folla degli operatori intermedi che ogni giorno escono dal ghetto e vanno a Rialto, ci riesce difficile da allineare in categorie distinte e precise.
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Re: Ebrei tałiani resorxemento e I goera mondial

Messaggioda Berto » lun feb 22, 2016 11:42 am

L'ultima fase della serenissima - La politica: LA MUNICIPALITA DEMOCRATICA
Storia di Venezia (1998)
di Giovanni Scarabello
capitolo iv

http://www.treccani.it/enciclopedia/l-u ... Venezia%29

...

Domenica 14 maggio si pubblicò un proclama con il quale si rese noto alla popolazione il cambiamento di regime e il prossimo ingresso in città delle truppe francesi (16).

Il 15 ci si dedicò soprattutto alla stesura di un fondamentale manifesto: quello con cui si intendeva formalizzare il passaggio dei poteri dal vecchio regime alla municipalità democratica provvisoria. La bozza fu stesa dal Villetard e discussa con il Donà, con lo Spada e qualche altro e anche con l'ex doge. Il Villetard voleva che ad emanarlo figurasse ancora il vecchio governo (il "Serenissimo Principe").
Si riuscì a scindere il testo in due proclami: uno, più breve, in cui il vecchio governo informava che da quel momento il potere era nelle mani della municipalità, e uno, più consistente, che comprendeva tra l'altro la lista dei membri dell'assemblea municipalista (concordata tra il Villetard e i democratici riuniti a casa sua). Nel corso delle discussioni era stata declinata l'offerta del Villetard e dei democratici di porre l'ex doge Ludovico Manin come presidente dell'assemblea municipalista.

I due proclami furono pubblicati il 16.
Il primo si intitolava ancora al "Serenissimo Principe" e il secondo era intitolato semplicemente "Manifesto" (17).

Quello intitolato (sarebbe stato per l'ultima volta) "il Serenissimo Principe fa sapere che" era assai stringato. Diceva che da quel momento il governo sarebbe stato "amministrato da una Municipalità Provisionale"; che essa s'era installata nella sala dell'ex maggior consiglio; che quel giorno stesso, 16 maggio, alle ore 12, tutti i militari con grado di ufficiale si dovevano portare in quella sala a prestare il giuramento di fedeltà nelle mani della municipalità.

Il proclama intitolato "Manifesto", recante in calce la lista dei sessanta membri dell'assemblea municipalista, appare assai ben congegnato.
Nella prima parte si proclamava che il vecchio regime, "desiderando di dare un ultimo grado di perfezione al sistema repubblicano" ch'era stato per secoli la gloria di Venezia, annunciava all'Europa e ai Veneti di aver attuato la riforma "libera e franca" della costituzione.
Nella seconda parte si notificava, come esito di tale riforma, la creazione di una struttura di governo provvisoria per Venezia chiamata municipalità, composta da rappresentanti di tutte le "classi" sociali, e si prospettava la possibile creazione di una "amministrazione centrale" (chiamata "dipartimento") incaricata di curare gli interessi generali della Repubblica e costituita da rappresentanze di Venezia, dei territori veneti di Terraferma, dell'Istria, della Dalmazia, dell'Albania e delle isole del Levante.

Sempre in questo manifesto si accennava allo stabilimento della libertà con annessa salvaguardia della religione, dei diritti individuali, nonché della proprietà; si chiariva che la municipalità doveva intendersi come provvisoria sino a che il popolo non avesse potuto riunirsi per elezioni "a norma delle forme democratiche"; si menzionava l'aiuto che i Francesi avrebbero dato perché Venezia legasse le sue sorti a quelle dei popoli liberi d'Italia; si ricordava la spontanea e benemerita rinuncia che gli ex patrizi avevano fatto della loro esclusività di potere e dei loro privilegi.

Era chiaro che la rivoluzione istituzionale avveniva sulla base di una sorta di "compromesso" per il quale i vecchi governanti cedevano il potere e liquidavano il regime aristocratico e i Francesi e i municipalisti subentravano a gestire e garantire trapassi verso situazioni democratiche rispettose dei membri dell'ex corpo dirigente, della sostanza degli assetti sociali esistenti e di una qualche prospettiva per la statualità veneta.

Intanto a Milano i deputati veneziani avevano continuato a trattare con Napoleone assistito dal Lallement.
Essi erano all'oscuro dell'evolvere della situazione a Venezia mentre i Francesi, sia pure con qualche ritardo, ricevevano informazioni dal Villetard e dal generale Baraguey d'Hilliers.
Napoleone li tenne sulla corda con proposte e considerazioni contraddittorie fino a quando, il 14, essi conobbero la decisione finale del maggior consiglio del 12 e a Milano giunse il generale Henry Guillaume Clarke con la ratifica da parte del direttorio dei preliminari di Leoben. A quel punto si convenne che sarebbe stato opportuno formalizzare un trattato di pace tra la Repubblica di Venezia e la Francia. Non ci fu molto da trattare sulla bozza proposta da Napoleone. Il 16 si procedette alla firma del trattato (le sottoscrizioni sono di Napoleone, del Lallement e dei deputati veneziani Francesco Donà, Leonardo Giustinian, Alvise Mocenigo). Ci si chiese subito quale organismo avrebbe dovuto procedere per parte veneziana alla ratifica. Napoleone tagliò corto: il consesso che aveva sostituito il maggior consiglio avrebbe ratificato e avrebbe demandato a tre suoi membri la ratifica degli articoli segreti.

Il trattato di pace constava di 7 articoli palesi e 5 articoli segreti e figurava intervenire tra la Repubblica francese e la Repubblica di Venezia rappresentate rispettivamente dal direttorio e dal maggior consiglio.

Nella parte palese si dichiaravano cessate le ostilità e si conveniva che il maggior consiglio rinunciava al diritto di sovranità, ordinava "l'abdicazione dell'aristocrazia ereditaria", riconosceva la sovranità dello stato nell'assieme dei cittadini che l'avrebbero esercitata attraverso un governo espresso democraticamente.

Tale governo si sarebbe impegnato a garantire il debito pubblico, a sostentare gli ex patrizi poveri e a continuare a corrispondere gli assegni vitalizi in essere. La Repubblica di Francia, di ciò richiesta, acconsentiva a stanziare a Venezia una divisione di truppe per mantenere l'ordine e la sicurezza delle persone e della proprietà e per aiutare "i primi passi" del nuovo governo il quale, peraltro, quando lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto richiedere il ritiro delle truppe stesse.
Gli altri contingenti militari francesi avrebbero evacuato i territori veneti di Terraferma "alla conclusione della pace continentale".
Il nuovo governo democratico restava impegnato a proseguire il processo ai tre ex inquisitori di stato e al comandante del forte del Lido per l'insurrezione di Verona e l'affondamento del Libérateur d'Italie. Il direttorio, per mezzo di Napoleone, restava impegnato a concedere un'amnistia generale per i reati commessi contro i Francesi e a liberare i prigionieri di guerra.
Nel primo degli articoli segreti si stabiliva che la Repubblica di Francia e quella di Venezia si sarebbero intese "per il cambio di differenti territori". Nel secondo, terzo, quarto e quinto si stabiliva che la Repubblica di Venezia avrebbe corrisposto in tre rate ai Francesi 3.000.000 di lire tornesi, attrezzature di marina fra quelle esistenti nell'Arsenale veneziano, tre vascelli di linea, due fregate, inoltre, a scelta di Napoleone, venti dipinti e cinquecento manoscritti (18).


4. Esordio e struttura della municipalità democratica di Venezia

I membri della municipalità democratica provvisoria si riunirono per la prima volta in palazzo Ducale nella sala dell'ex maggior consiglio il 16 maggio 1797 sotto la presidenza di Nicolò Corner.

Erano sessanta.


Tra di loro, parecchi erano gli ex patrizi (quasi tutti ricchi); molti i grossi commercianti, gli imprenditori, gli uomini di affari; molti i professionisti (in prevalenza avvocati); non pochi gli ex alti burocrati della Repubblica; qualche ecclesiastico; qualche militare; qualche raro uomo del popolo come Vincenzo Dabalà, il gastaldo dei pescatori di San Nicolò (19).
Di fatto, la stragrande maggioranza era costituita da uomini che socialmente ed economicamente avevano avuto posizione di rilievo anche nel passato regime.
Nella sua composizione, l'assemblea mostrava di essere frutto di quel "compromesso" fra discontinuità e continuità che aveva presieduto confusamente al trapasso dalla Repubblica aristocratica alla democrazia.

Il primo intervento, di saluto al popolo e ai capi militari che erano venuti a prestare giuramento di fedeltà, fu del municipalista, avvocato, Giuseppe Andrea Giuliani. Raccolto il giuramento, Vincenzo Dandolo, un farmacista e chimico destinato a diventare uno dei municipalisti più conseguenti ed attivi, propose un proclama da lanciare al popolo "sovrano" per chiamarlo a stringersi attorno alla municipalità e a sostenerla in nome di parole d'ordine come "libertà", "uguaglianza", "ragione", "giustizia".
Poco dopo giunsero i capi dei lavoratori dell'Arsenale, anch'essi a giurare fedeltà.
Andrea Sordina, un greco che aveva lavorato nell'alta burocrazia della Repubblica, propose che si organizzasse un simbolico "amplesso fraterno" tra i municipalisti e una rappresentanza di soldati francesi.
Francesco Mengotti, un nobile feltrino studioso di idraulica e di economia, pronunciò un discorso in cui, tra l'altro, sostenne che il popolo veneto, tornando alla democrazia, non aveva fatto altro che tornare all'antico ordine repubblicano poi sovvertito dalle degenerazioni e deviazioni aristocratiche.
In quest'ottica, rivoluzione significava riordino, riordinamento.
Un "dotto" discorso che si deliberò di far stampare a spese della municipalità (20).

A questo punto i municipalisti - su invito di Rocco Melancini, un medico - si portarono in piazza San Marco per presentarsi direttamente al popolo. In piazza, tra gli evviva, il Giuliani lesse un proclama pubblicato quel giorno.
In esso si dichiarava "benemerito della patria" l'ex maggior consiglio che aveva "abdicato".
Si annunciava un'amnistia solenne per qualsiasi passato comportamento politico che - nel nuovo regime - avesse potuto esser valutato delittuoso; un'amnistia che escludeva solo i così detti "saccheggiatori del 12", cioè coloro che avevano partecipato alla chiassata popolare del 12 maggio a favore della vecchia Repubblica.
Si chiedeva benevolenza anche per gli ex inquisitori di stato e per Domenico Pizzamano per i quali era in corso un processo. Si promettevano concrete provvidenze (garantite dai beni nazionali e da apposite lotterie) per gli ex patrizi e patrizi poveri e per i pensionati dello stato.
Si assicuravano risarcimenti a coloro che avevano subito danni dall'insurrezione popolare del 12.
Ci si assumevano i debiti della Zecca, del bancogiro e del pubblico erario verso chicchessia.
Si concludeva indicando nella prosperità della patria, nella tutela della religione, della proprietà e della sicurezza, e nel mantenimento della democrazia e della libertà, gli obiettivi principali della municipalità (21).

La prima preoccupazione dei municipalisti fu quella di far funzionare l'amministrazione. Provvisoriamente si mantennero in vita le vecchie strutture con il personale burocratico esistente. Ovviamente fu tolta ai patrizi - che prima la detenevano in esclusiva - la direzione politica di ciascun organismo. Le strutture che non poterono essere assolutamente mantenute in vita furono quelle dell'amministrazione della giustizia. Ad esse il vecchio regime aveva conferito caratterizzazioni di sostanza e di forma talmente originali da renderne impossibile un qualsiasi sia pur transitorio utilizzo. Era un settore in cui occorreva veramente rivoluzionare. Non restò altro che "sospendere il foro" per quindici giorni in attesa di dare ad esso una nuova e moderna configurazione.

Già il 18 si varò lo schema della nuova struttura di amministrazione.
All'assemblea municipalista (che aveva presidente, vicepresidente e quattro segretari) furono affiancati otto comitati, una sorta di ministeri o, se si vuole, di assessorati municipali cui si assegnarono come luogo di riunione le sedi delle ex magistrature della Repubblica per lo più in palazzo Ducale (ribattezzato "Casa della Comune").

Tali organismi furono:

il comitato di salute pubblica (politicamente il più importante);
il comitato militare;
il comitato finanze e zecca;
il comitato bancogiro, commercio, ed arti;
il comitato sussistenze e pubblici soccorsi;
il comitato di sanità;
il comitato arsenale e marina;
il comitato istruzione pubblica.

Ciascuno dei comitati ereditava le funzioni di parecchie delle magistrature della ex Repubblica. Sul momento, vennero mantenuti in vita gli apparati burocratici delle antiche magistrature, ma era nei programmi di smantellarli e sostituirli a poco a poco. Certamente la rivoluzione, semplificazione, razionalizzazione delle strutture fu radicale e non avrebbe potuto essere altrimenti, se non altro per ragione della vetustà degli apparati amministrativi con i quali la vecchia Repubblica era giunta fin alle soglie dell'età contemporanea.

Dei sessanta municipalisti, buona parte si distribuirono nei comitati, due rimasero fuori da incarichi specifici e i rimanenti entrarono in una sorta di comitato aggiuntivo detto "delle istanze" incaricato di ricevere, vagliare ed inoltrare ai comitati competenti le istanze dei cittadini (22).
Il presidente veniva eletto ogni quindici giorni (23).
Quattro erano i segretari il cui compito principale era quello di stendere i verbali delle sedute.
Ci furono delle aggregazioni a fine maggio, delle aggregazioni in agosto con rappresentanti di Cavarzere, Torcello, Murano, Mestre, Pellestrina, Loreo, Chioggia, e Gambarare e Oriago, per cui a fine estate il numero complessivo dei municipalisti si aggirò sull'ottantina.
Ai primi di giugno vennero nominati anche quattro supplenti (24).

Lo schema organizzativo era simile a quello adottato nelle municipalità già formatesi nei territori dell'ex stato veneto e nella Lombardia democratizzata e ricalcava gli schemi amministrativi della Francia postrivoluzionaria (25).

Le sedute dell'assemblea furono pubbliche, private, segrete.
Nelle prime era ammesso il pubblico (fino a trecento persone con biglietti di ingresso distribuiti in egual misura nei sestieri), delle seconde erano pubblici solo i verbali, delle terze si tenevano riservate anche le verbalizzazioni. Pressoché ogni giorno assemblee e comitati si riunivano: l'impegno e il lavoro dei municipalisti furono subito intensissimi.

Come si è visto, il trattato di pace con la Francia era stato firmato a Milano il 16 di maggio dai deputati della ex Repubblica e si era convenuto che la ratifica sarebbe stata effettuata dalla nuova municipalità (26). I tre ex deputati che avevano firmato, tornati a Venezia, vennero a riferire ai municipalisti il 20 maggio e l'assemblea, pur acclamando al trattato, decise di inviare a Milano Tommaso Pietro Zorzi e Pietro Turrini, che si aggiunsero al Giuliani e al Fontana già sul posto, per concordare con Napoleone le modalità per la ratifica (27), la quale venne perfezionata il 29 maggio (28) e presentata al Bonaparte da Francesco Mengotti il quale era stato nominato (27 maggio) rappresentante della municipalità presso di lui.
Tale ratifica era stata approvata dalla municipalità riunita in comitato segreto.
Il governo francese, per parte sua, nonostante gli sforzi veneziani presso Napoleone e a Parigi, non perfezionerà mai la ratifica e ciò, soprattutto, onde conservare le mani libere nelle trattative, già iniziate, per arrivare a quel trattato di pace per il quale a Leoben erano stati firmati i preliminari.

Sul piano del consenso si partiva quasi da zero. I cittadini francamente democratici erano assai pochi. Appartenevano ai ceti medio alti, ma non avevano in quei ceti una sicura base di appoggio. La gente dei ceti medio bassi non appariva per niente schierata con la municipalità e, in certa misura, l'osteggiava.
Moltissimi erano coloro che restavano psicologicamente condizionati dall'attaccamento all'antica Repubblica.
Moltissimi coloro che sentivano i Francesi come degli usurpatori.

Si posero in atto delle decretazioni volte a mantenere i calmieri e a diminuire i prezzi dei prodotti di prima necessità e, sestiere per sestiere, si nominarono dei cittadini per vigilare sull'applicazione dei decreti stessi.
Si prelevarono 12.000 ducati in Zecca per farne distribuzione tra i ceti popolari. Fu disposto che i capi del centinaio e più di corporazioni che compattavano il mondo degli operatori del piccolo commercio, degli artigiani, degli imprenditori e addetti di molte manifatture, degli addetti a certi servizi, rimanessero al loro posto.
Soprattutto si organizzarono una serie di manifestazioni per celebrare la libertà e per incominciare a divulgare immagini atte a diffondere tra la popolazione stimoli alla lettura critica della storia della ex Repubblica, stimoli alla conoscenza dei principi di libertà e democrazia, stimoli per la conoscenza dei programmi della municipalità e per l'adesione ad essi, stimoli alla "rigenerazione" come allora si diceva.

La prima manifestazione propagandistica importante fu l'erezione in piazza San Marco dell'albero della libertà.

Un rito appartenente all'esperienza rivoluzionaria di Francia che si era generalizzato nelle città e territori italiani dove erano arrivate le truppe napoleoniche. La festa ebbe luogo domenica 4 giugno in piazza San Marco. C'erano tre loggiati provvisori, uno posto davanti alla chiesa di San Geminiano per i municipalisti e sormontato dalla scritta "La libertà si conserva con l'osservanza delle leggi" e gli altri due disposti ai lati davanti alle Procuratie (ribattezzate "Gallerie Nazionali") destinati agli ufficiali italiani e francesi e sormontati dalle scritte "La libertà nascente è protetta dalla forza delle armi" e "La libertà stabilita conduce alla pace universale". Un'altra scritta dominava sulle tre appena citate e recitava "Rigenerazione italiana".
All'intorno si incontravano simulacri rappresentanti la libertà col berretto frigio e con i fasci in atto di scacciare la tirannide, il tempo che scopriva la verità, ecc. (gran parte della scenografia fu opera di Neumann Rizzi). C'erano anche quattro orchestre.

All'ora stabilita si formò una sorta di processione: ufficiali francesi capeggiati dal generale Baraguey d'Hilliers comandante militare della piazza, i municipalisti con sciabola e cappello alla nuova moda, soldati italiani, due fanciulli con fiaccole accese in mano e due con gonfaloni su cui si leggeva "Crescete speranze della patria", due giovani coppie di promessi sposi che recavano il motto "Fecondità democratica", un vecchio e una vecchia con attrezzi agricoli, i componenti della Guardia nazionale di recente costituita, i rappresentanti degli stati esteri (quelli che avevano ricevuto l'invito e avevano consentito a presentarsi), le rappresentanze delle corporazioni, i municipalisti ecc. In mezzo alla Piazza, mentre i cannoni sparavano a salve e mentre le campane mandavano i loro rintocchi e i musici suonavano e i coristi de La Fenice cantavano un "Coro patriottico" scritto da Domenico Casotto con musica di Vittorio Trento, si innalzò l'albero della libertà con alla sommità il berretto frigio.

Attorno stavano altri simulacri come le statue con in mano la fiaccola della libertà e dell'uguaglianza. Sventolavano i gonfaloni tricolori sui tre pennoni della Piazza, vibravano con il vento gli addobbi con scritte inneggianti ai Francesi nella Piazzetta, dove una delle due colonne era parata a lutto per commemorare i morti per la democrazia, primi fra tutti quelli del Libérateur d'Italie affondato al Lido in aprile.
Il presidente della municipalità Talier pronunciò il discorso ufficiale ("Democrazia o morte! Ho detto", fu la sua conclusione) ed indi tutti si recarono nella chiesa di San Marco per il Te Deum di ringraziamento. Ritornati in Piazza, dopo un nuovo discorso di Vincenzo Dandolo, incominciarono le danze intorno all'albero della libertà. Si bruciò una copia del Libro d'oro in cui erano un tempo testificati i membri del patriziato, cioè coloro che detenevano in esclusiva il potere politico. Si bruciarono le ex insegne del doge.

A sera, la festa continuò sia in Piazza, sia al teatro La Fenice con un'opera, con allegrezze, con sfoggio di bei vestiti, coccarde, fiori, bandiere, ingresso gratis ai gondolieri, ballo degli arsenalotti a simboleggiar la fratellanza se non l'uguaglianza sociale. Le manifestazioni continuarono per due giorni ancora pur disturbate dal cattivo tempo e con un concorso popolare che - lo si ammise anche nelle gazzette - fu inferiore a quello sperato.

Si sentì il bisogno di avere a disposizione un completo quadro socio-economico della popolazione.
Il comitato di salute pubblica per bocca dell'attivissimo Dandolo lanciò alla municipalità l'invito a procedere all'allestimento di nuove anagrafi.
Incaricati delle rilevazioni erano i parroci ai quali veniva affidato il compito di descrivere in appositi registri la popolazione con curiosi criteri di classificazione: "gran signori"; "benestanti proprietari"; "benestanti bottegai"; bottegai e artigiani sufficientemente provveduti; operai e salariati; disoccupati; oriundi dell'ex stato veneto da più di dieci anni a Venezia, o da meno; oriundi di stati stranieri allo stesso modo; "forestieri ignoti, sospetti, o perturbatori".
Si era alla fine di maggio, il lavoro dovette andar avanti a rilento se in agosto troviamo autorizzata una spesa di 1.966 lire per acquisto dei registri. La rilevazione, nella intenzione dei proponenti, aveva fini di controllo e sicurezza, ma anche fini socio-fiscali in quanto si voleva avere una buona informazione sulle categorie alle quali ci si sarebbe potuto maggiormente rivolgere per portar denaro alle casse dello stato. Fini analoghi ebbero i decreti di metà giugno coi quali si cercò di riportare in patria tutti i cittadini possidenti e benestanti assenti, si cercò di rendere difficile la concessione dei passaporti per lasciare la città ed ancor di più di lasciarla portandosi dietro denaro e valori (29). Fini "filosofici" avrà invece il piano di ridisegno delle suddivisioni sestierali della città che verrà lanciato dal comitato di istruzione pubblica alla fine di ottobre.
Assieme a una riduzione e riconfigurazione delle parrocchie in termini di omogeneizzazione delle consistenze di ciascuna, tale piano proporrà l'eliminazione dei vecchi sestieri e la suddivisione della città (una "esatta divisione democratica, prudente, e filosofica") in otto "sezioni" pressappoco di uguali dimensioni. La sezione comprendente la zona di Castello e l'Arsenale sarebbe stata denominata "Marina"; quella comprendente le sedi della municipalità sarebbe stata chiamata "Legge"; quella comprendente i teatri sarebbe stata denominata "Spettacoli"; quella comprendente le dogane sarebbe stata denominata "Commercio"; quella comprendente San Nicolò e Santa Marta, contrade di pescatori, sarebbe stata denominata "Pesca"; quella comprendente San Polo, dove era la casa Ferratini sede dei cospiratori democratici, sarebbe stata denominata "Rivoluzione"; quella comprendente le sedi delle scuole superiori sarebbe stata denominata "Educazione"; quella comprendente le zone di Cannaregio affaccianti alla laguna verso la terraferma sarebbe stata denominata "Viveri" e in essa la zona dell'ex Ghetto sarebbe stata denominata "Riunione" (30).

Il Ghetto, infatti, era stato aperto con solenne cerimonia ai primi di luglio e ogni discriminazione nei confronti degli Ebrei era stata eliminata.
Alcuni di essi sedettero nell'assemblea municipalista ed assolsero importanti funzioni in taluni dei comitati.


Il calendario venne modificato con l'abolizione dell'uso veneziano di far iniziare l'anno dal 1° di marzo e farlo finire al termine di febbraio (le datazioni more veneto). Inoltre venne adottato, ma solo sussidiariamente, il calendario rivoluzionario francese.
Per le ore del giorno venne abbandonato il vecchio computo che aveva il suo perno nel tramonto del sole (incominciava in quel momento l'ora una di notte) e quindi comportava tutta una variabilità in rapporto alle stagioni, e venne adottato il sistema francese imperniato sulla divisione del giorno in ventiquattr'ore uguali.

Venne anche battuta moneta: le 10 lire veneziane d'argento con l'immagine della Libertà, e alcune scritte sul dritto e sul verso come: "Anno primo della libertà italiana 1797", "Libertà", "Uguaglianza", "Zecca V.". Abbastanza intensa fu l'opera di demolizione e cancellazione dei simboli del passato regime, specie dei leoni di San Marco.


La Guardia nazionale e i battaglioni di linea

Fra le prime preoccupazioni della municipalità vi fu quella di continuare la smobilitazione dei corpi dell'esercito oltremarini, di riorganizzare e snellire i corpi di truppe italiane e di lavorare per la costituzione di battaglioni di linea sull'esempio delle legioni cisalpine da poter offrire in campo a Napoleone in caso di riapertura delle ostilità. Un tentativo in giugno di arruolare volontari per tali battaglioni dette scarsissimi risultati.
In ogni caso verso la fine di agosto la municipalità poté avere a disposizione un migliaio di soldati ben equipaggiati ed addestrati. Sempre poco rispetto alle richieste francesi di una forza di seimila uomini. A fine settembre, nel quadro delle mosse atte a mostrare una determinazione francese alla guerra nel caso di improduttività delle trattative di pace, anche il battaglione di linea veneto partì per il Friuli.
Per tutto quel che atteneva al mantenimento dell'ordine repubblicano, dopo le prime settimane in cui si attivarono delle pattuglie di cittadini, si procedette alla costituzione della Guardia nazionale. Una sorta di corpo, una "forza interna", da portare a un certo grado di addestramento militare attraverso esercitazioni periodiche, vincolato da un giuramento alla democrazia, tenuto a una disciplina, incaricato di funzioni varie (per lo più a turno) di vigilanza in città, specie in difesa degli ordinamenti democratici contro ogni eversione, eventualmente ed in certa misura in grado di funzionare anche come riserva di uomini addestrati su cui, all'occorrenza, i corpi più propriamente militari avrebbero potuto attingere. Già ai primi di giugno si lanciò il piano di organizzazione che prevedeva l'arruolamento di tutti i cittadini maschi dai 16 ai 50 anni che fossero stati fisicamente abili, eccettuati i funzionari pubblici, i medici, i servitori, gli ecclesiastici, i questuanti. Erano previsti un'uniforme e depositi di armi. Sulle prime il servizio venne configurato come gratuito e solo in un secondo momento sarà previsto un tenue indennizzo. Tre ufficiali delle truppe di linea (il tenente colonnello Bucchia, il maggiore Verlato e il capitano Mattei), con il grado di generali di brigata e con adeguato stipendio, vennero preposti all'organizzazione, addestramento e comando delle formazioni. Ognuno di essi comandava le formazioni della

Guardia di due sestieri della città.
Sulle prime si registrò la buona disposizione al servizio da parte di un discreto numero di cittadini. Figurare nella Guardia nazionale dava occasione a un certo protagonismo soprattutto di facciata (l'uniforme, il prendere parte con distinzione e proprio ruolo ritualizzato alle numerosissime cerimonie pubbliche, l'esser investiti di immagini di autorità, ecc.). Ben presto però la non chiarezza dell'evolvere della situazione generale, un certo fastidio per i pesi imposti, il tempo che veniva sottratto alle occupazioni ordinarie e altre ragioni ancora determinarono molti a escogitare pretesti per farsi esentare (soprattutto compiacenti attestazioni mediche) e spinsero altri a sottrarsi francamente agli obblighi.
In agosto la presenza delle truppe francesi in città si alleggerì e sembrò che la Guardia nazionale dovesse compensare tale alleggerimento con un suo maggior protagonismo, viceversa vennero spedite a Venezia delle milizie cispadane che si acquartierarono al Lido. Per di più, i Francesi intensificarono l'asporto di tutte le armi dall'Arsenale, compresi i duemila fucili che dovevano servire per i tre battaglioni della Guardia di cui due già completamente organizzati (compagnie di granatieri, fucilieri, cacciatori e banda musicale). La prospettiva organizzativa prevedeva una strutturazione in legioni come nella Cisalpina. Nel momento di massima espansione l'organico della Guardia nazionale si aggirò sui quindici, diciottomila uomini.


I rapporti con il clero
Il "compromesso" mediante il quale si erano configurate forme e sostanze del trapasso dagli assetti aristocratici a quelli municipalisti democratici aveva fissato ben fermo ed esplicito anche il punto della salvaguardia della religione cattolica e delle sue strutturazioni nella società veneziana e veneta. Pertanto sia ai municipalisti che al patriarca si propose subito l'esigenza di dare continuità, in concreto, alla consueta intesa/alleanza tra autorità civile e autorità religiosa (31).

Non ci furono problemi. La municipalità - la quale, oltre a tutto, non contava nel suo seno uomini dagli umori eversivi in fatto di religione e di Chiesa - mostrò immediatamente di far molto conto sul corpo ecclesiastico come su uno degli strumenti da utilizzare per la creazione del consenso popolare, che si presentava scarsissimo. Il patriarca di Venezia, Federico Maria Giovanelli, così come gran parte dei vescovi veneti (fra l'altro va ricordato che quasi tutti provenivano dall'ex patriziato veneziano) (32), avute le assicurazioni più ampie sulle buone disposizioni dei nuovi governanti in fatto di religione e di clero, non ebbe difficoltà a perseguire il mantenimento di un buon dialogo con le nuove autorità. Una linea prudente di tal fatta era del resto consigliata anche dalla situazione politica generale in forte movimento e dal fatto che poco chiari permanevano i destini che si preparavano per Venezia e per il Veneto.
Con una pastorale del 17 maggio, il patriarca esortò la popolazione alla subordinazione al nuovo governo provvisorio sottolineando che i "cambiamenti erano successi con il previo concorso del Maggior Consiglio che rappresentava allora la Veneta Repubblica". Era più un avallo alla legittimità del nuovo governo che non un avallo alla democrazia in sé. Il primicerio, cioè il prelato che gestiva la chiesa di San Marco, la ex cappella dogale, dette disposizione perché la pastorale venisse letta tre volte ogni mattina nella chiesa stessa. Pochi giorni dopo, il patriarca, il primicerio e il clero vennero convocati a prestar "civico giuramento alla municipalità" nonché a presenziare al successivo "banchetto patriottico". Il 25 maggio, solennemente, il giuramento venne pronunciato dal provicario del patriarca Bartolomeo Zender. Il 4 di giugno, festa di Pentecoste, ma anche festa dell'innalzamento in piazza San Marco dell'albero della libertà, si trovò un accordo per non sovrapporre l'orario delle due celebrazioni e l'albero fu innalzato dopo le 16 a funzioni religiose esaurite. Il patriarca non partecipò alla festa, ma vi presenziò invece il primicerio che, dal 1787, era Paolo Alvise Foscari, e non mancò un Te Deum in chiesa.

Sostanzialmente, l'accordo tra la municipalità e il patriarca non conobbe momenti di grave rottura anche se qualche attrito e contraddizione ci fu. I municipalisti si mossero - e con prudenza - sul solco della politica giurisdizionalistica che era stata della Repubblica e non certo nella direzione delle politiche nuove della Francia rivoluzionaria.
Verso la fine di giugno, quando nell'assemblea municipalista si discuteva sulla libertà di stampa, il patriarca fece sentire la sua voce preoccupata circa i pericoli che, se "smodata", essa poteva comportare (33). Nello stesso periodo, ad iniziativa del municipalista abate Collalto, membro del comitato di istruzione pubblica, si discusse una decretazione che dava nuova configurazione alla scelta dei parroci della città. Essi avrebbero dovuto essere eletti a maggioranza di voti da parte di coloro che risiedessero nella parrocchia ed avessero più di 21 anni di età. La novità forse più rilevante era data dal fatto che con il passato regime votavano solo coloro che avevano possessioni in parrocchia, anche nel caso non fossero stati residenti. A fine agosto vennero in discussione questioni come quella della riduzione del numero delle parrocchie cittadine, che - si pensava - potevano passare da settanta a quaranta o a trenta, e questioni relative a blocchi da porre alla eccessiva espansione del numero dei secolari e dei regolari (34).
A parlare di riduzione del numero dei preti si era incominciato già da fine luglio quando il Dandolo aveva proposto l'allontanamento di quelli forestieri. Il grosso della discussione si sviluppò dopo i primi di settembre partendo da un progetto del comitato di istruzione pubblica. Vari emendamenti addolcirono questo o quell'aspetto dell'assai drastico progetto iniziale (35) e certamente, agli effetti di tale addolcimento, non fu ininfluente l'azione del patriarca, il quale, a dibattito iniziato, chiese con una lettera direttamente a Napoleone di intervenire per sospendere il progetto onde consentire una più maturata valutazione dei vari aspetti delle questioni sul tappeto.
Un'aperta contrattazione tra patriarca e municipalità presiedette invece alla elaborazione di un progetto di sistemazione dei monasteri femminili. Il 10 ottobre la deputazione all'amministrazione generale delle cause pie, dopo aver descritto la situazione di grave degrado economico di parecchi monasteri, presentò un piano per accorparne parecchi. In pratica si chiedeva di ridurre il numero di essi da trentasette a quindici concentrando in questi ultimi le millecentoquarantasei monache esistenti. Inoltre si proponevano vari interventi per funzionalizzarne l'amministrazione con l'ottimistica previsione di ridurre in tal modo le spese annue da 1.500.000 a 725.000 lire. Il piano venne presentato al patriarca il quale, dopo aver lodato le intenzioni di risanamento, abilmente entrò nel merito di esso e dopo pochi giorni presentò una sorta di contropiano per mezzo del quale egli riproponeva l'autorità ecclesiastica come l'unica legittimata a decidere e gestire provvedimenti in materia di strutture ecclesiastiche e controproponeva che, ferma la salvaguardia di tutti i beni dei monasteri, fosse appunto l'autorità ecclesiastica a provvedere con propri criteri alla concentrazione dei monasteri stessi e all'accentramento e ripartizione delle loro risorse (36).

Nel mentre che, con qualche resistenza, continuava - a pro delle fusioni della Zecca esausta - il drenaggio degli ori ed argenti delle chiese che non fossero direttamente serviti ai riti ecclesiastici e si coinvolgeva nelle consegne obbligatorie anche il tesoro di San Marco, fu prospettata la soppressione della figura del primicerio e dell'ex cappella dogale la quale, come si è detto, faceva da secoli tutt'uno con la chiesa di San Marco. Nei progetti, tale chiesa sarebbe dovuta diventare la sede della "parrocchia centrale" della città, cioè la nuova sede patriarcale al posto di San Pietro di Castello (37).
Come si vede, si trattò di moderati progetti di razionalizzazione. In ogni caso non ci fu tempo per nessuna realizzazione.
Taluni progetti saranno ripresi ed attuati nel primo Ottocento con il napoleonico Regno d'Italia in un contesto ben più ampio e radicale di interventi sistematori e anche liquidatori di non poche delle strutturazioni ecclesiastiche veneziane che avevano attraversato i secoli della Repubblica.
L'amministrazione municipalista contò tre ecclesiastici: l'abate Signoretti, l'arciprete Talier e l'abate Collalto. Nella sostanza, tre intellettuali. Il Signoretti, ex gesuita e massone, e il Talier si mossero su posizioni moderate. Più impegnato fu il Collalto, uno studioso di matematica e fisica, il quale si collocò contiguo all'ala radicale della municipalità guidata dal Dandolo. A lui si devono alcuni dei progetti di riforma delle strutture ecclesiastiche veneziane di cui si è detto. Tutti e tre agirono all'interno dell'assemblea municipalista a titolo personale e senza fili di rapporto con il patriarcato.

Fra i membri del clero ci fu un diverso atteggiarsi rispetto ai nuovi assetti politici determinatisi a Venezia dopo il 12 maggio. Moltissimi si allinearono alle direttive della gerarchia e mantennero atteggiamenti esteriori di conciliante prudenza ed attesa (su questo versante, punti di riferimento furono, pur con accentuazioni diverse, il vicario del patriarca Bartolomeo Zender, don Giovanni Giuseppe Piva e don Scipione Bonifacio).
Alcuni, pochi, non seppero resistere al bisogno di esternare posizioni di rifiuto rispetto a questo o quell'aspetto del nuovo corso delle cose. Dichiaratamente ostili al nuovo governo fin dal primo momento furono i preti Antonio Moroni, Lorenzo Guizzetti, Giuseppe Zappella e Giuseppe Driuzzi. Tutti erano parroci meno il Guizzetti. Degli umori di fronda di altri sappiamo sia dai rapporti dei commissari di polizia, sia dalle prese di posizione contro di loro di qualche municipalista come il Dandolo, sia dalle "liste nere" compilate in alcune occasioni come, per esempio, in ottobre nei giorni della "congiura Cercato".
Fra coloro (anch'essi pochi) che non seppero resistere alla voglia di mostrarsi protagonisti di entusiasmi e di ben proclamate adesioni alle idee democratiche, ci furono, da una parte, quelli che semplicemente ottemperarono agli inviti della municipalità di cooperare con la predicazione a sollecitare i fedeli "al rispetto delle leggi e all'intima conoscenza del libero governo" e, dall'altra, ci furono quelli che si fecero organici all'attività politica della municipalità. Fra questi ultimi, oltre ai tre membri della municipalità già nominati, occorre ricordare Giuseppe Valeriani, prete della parrocchia di San Maurizio, il quale fu direttore dell'ufficioso "Il Monitore Veneto" e più tardi abbandonerà l'abito talare, e don Antonio Zalivani, parroco della popolare parrocchia di San Nicolò dei Mendicoli, il quale aderì alla società di istruzione pubblica e fu autore di un Catechismo cattolico-democratico (38) che ebbe grande successo presso i municipalisti, venne stampato in gran numero di copie e venne diffuso largamente e d'imperio nelle parrocchie e nelle scuole.

Il Catechismo dello Zalivani, suddiviso in otto capitoli, utilizzando la forma dialogica propria dei catechismi, ma anche di molti altri pamphlets dell'epoca, si soffermava in forma semplice e rapida sui concetti di popolo, governo, società, nazione, legge, rappresentanza politica, si soffermava sui valori democratici ben sposati ai valori cattolici, sui diritti dell'uomo individuati nella libertà, uguaglianza, sicurezza e proprietà, sui suoi doveri individuati nell'ubbidienza alle leggi e al governo, nel servizio e difesa della società.

Nel complesso campeggiava l'idea di sovranità del popolo (tutti i cittadini uniti in società) esercitata tramite la democrazia rappresentativa, l'idea della conciliabilità delle forme democratiche con i valori evangelici, l'idea dell'uguaglianza di tutti indistintamente di fronte alla legge intesa come volontà sociale. Esplicita era però la legittimazione delle diseguaglianze economico-sociali in quanto derivata dalla naturale diseguaglianza delle capacità e dei meriti. Solenne era la riaffermazione perentoria del diritto inviolabile della proprietà privata.
Per lo Zalivani la fine della municipalità aprì un periodo di mortificanti imposte autocritiche e comportò il suo allontanamento da Venezia e l'emarginazione. Stessa sorte, ma meno dura, conobbero altri preti che si erano esposti a sostenere tesi "giacobine", come Stefano Sala, autore di una Istruzione al popolo sopra lo spirito della religione cristiana (39).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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