El gheto de Pava

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Messaggioda Berto » mer gen 27, 2016 11:33 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Berto
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Re: El gheto de Pava

Messaggioda Berto » mer gen 27, 2016 11:36 am

Museo della Padova ebraica
19/06/2015

http://www.blogdipadova.it/museo-della-padova-ebraica

Buongiorno a tutti! Quest’oggi vi voglio parlare del Museo della Padova Ebraica che si trova in via delle Piazze, 26/a a due passi dalle piazze del centro storico, all’interno dell’edificio che ospitava l’antica sinagoga di rito tedesco, sorta nel 1682 come edificio per il culto Ashkenazita presente in città già dal XIV secolo. Edificio che, incendiato da un pogrom fascista nel 1943 venne restaurato nel 1998.

In giallo le vie che costituivano l'antico ghetto di Padova
...

Il museo si trova quindi all’interno dell’area che delimitava l’antico ghetto ebraico della città, un’area angusta in cui la comunità ebraica fu costretta a vivere dal seicento fino all’arrivo di Napoleone che decretò l’abbattimento delle porte. Le porte del ghetto, custodite ciascuna da due persone, una di religione ebraica e l’altra cristiana, che impedivano agli ebrei di uscire dopo le due di notte erano a nord all’imbocco di via delle Piazze vicino alla Chiesetta di San Canziano, a Sud, in via dell’Arco angolo via Marsala, ad est all’inizio di via S. Martino e Solferino da via Roma mentre ad ovest nella stessa via all’altezza dell’incrocio con via dei Fabbri, un’area di circa 8000 mq in cui vissero anche più di 800 persone contemporaneamente con una densità abitativa incredibile. Non a caso le abitazioni crebbero in altezza e le cosidette case-torri sono visibili in via dell’Arco. Oltre alla sinagoga di rito tedesco ashkenazita c’era anche quella di rito spagnolo sefardita alla quale si accedeva dalla Corte Lenguazza, ora privata ma un tempo era la piazza del ghetto, e quella di rito italiano, di via S. Martino e Solferino, l’unica sinagoga aperta ed utilizzata per celebrare i riti della comunità. All’interno dell’attuale Hotel Toscanelli, un tempo sede dell’accademia rabbinica, si può ancora vedere un caminetto con lo stemma della famiglia Salom.

l’antico cimitero di via Isidoro Wiel
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I primi insediamenti ebraici risalgono al XII secolo ma la crescita e lo sviluppo della comunità padovana si ebbe nel Trecento grazie anche all’Università che, a differenza delle altre, accoglieva studenti di tutte le religiosi dimostrando così un’apertura e una tolleranza che spiegano il motto stesso dell’università “Universa Universis Patavina Libertas”. In epoca carrarese, la vocazione commerciale della città attrasse poi anche prestatori di denaro e venditori di oggetti di seconda mano.

Gli insediamenti ebraici originali erano in zona borgo Savonarola nei pressi del Ponte San Leonardo, lungo il fiume Bacchiglione (oggi tronco maestro) ed in questa zona ci sono i tre cimiteri più antichi su un totale di sette cimiteri, in via Wiel,il più antico, in via Campagnola, via Canal.

Sinagoga di Padova
La lapide in memoria delle vittime della Shoa sulla facciata della sinagoga di Padova in via S. Martino e Solferino
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L’importanza culturale di Padova per l’ebraismo è data dal fatto che qui ebbero modo di incontrarsi e convivere diverse culture ebraiche, la tedesca ashkenazita si insediò nel quattrocento con l’arrivo di diversi esponenti da Treviso, quella spagnola sefardita in seguito ai decreti che in Spagna portarono alla confisca dei beni e all’espulsione e che in Italia, in particolare in Toscana e nella Repubblica di Venezia, trovarono una legislazione più tollerante ed accogliente. Nello stesso secolo, le rigidità dello Stato della Chiesa spinsero molti ebrei romani a raggiungere queste zone e a scegliere Padova come primo insediamento. Gli ebrei italiani vivevano nella zona vicina a Porta Altinate mentre “spagnoli” e “tedeschi” a sud della chiesetta di S. Canziano raggiunti dagli italiani con l’istituzione del ghetto.
Essendo loro interdetto alle corporazioni delle Arti e dei mestieri gli ebrei si dedicavano al prestito di denaro e alla “strazzeria”, il commercio dell’usato. All’interno del ghetto si arrivò a poter contare 63 botteghe.
L’epoca d’oro della Padova ebraica si ebbe agli anni inizi del Novecento e fino alle leggi razziali del 1938 quando molti degli esponenti della comunità ricoprivano posizioni di prestigio nella società e fino a ruoli di vertice della classe dirigente tra cui Giacomo Levi Civita, parlamentare e sindaco di Padova (1904-1910), Leone Romanin Jacur, politico e parlamentare,Leone Wollemberg, economista e deputato, Vittorio Polacco, giurista rettore universitario e senatore.

Oggi la comunità ebraica padovana è numericamente piccola ma decisamente viva e l’impresa dell’apertura di questo museo ne è dimostrazione.

Museo della Padova EbraicaIl Museo della Padova Ebraica è quindi un prezioso nuovo spazio della città a disposizione dei cittadini e dei turisti che qui, oltre ad una serie di oggetti unici e dal grande valore storico e culturale, troveranno soprattutto un omaggio alle personalità più eminenti, la vera ricchezza della comunità ebraica padovana nel corso dei secoli, per mezzo di una proiezione mappata sulla parete.

Museo della Padova ebraicaNel buio della sala, a rendere ancora più suggestiva l’atmosfera è infatti lo spettacolo multimediale di 50 minuti intitolato “Generazione va, generazione viene” (regia di Denis Brotto in collaborazione con l’Università di Padova) tramite la quale, vari attori recitano la parte dei personaggi più illustri dell’ebraismo mondiale che hanno avuto un legame con la nostra città tra cui Don Itzhak Abrabanel, esegeta, filoso, mistico nato a Lisbona ma sepolto a Padova (vi ricorda qualcuno?), Yehuda Mintz fondatore dell’accademia talmudica di Padova nel 1460 e molti altri.

Il risultato è un continuum di racconti da varie epoche che si possono ascoltare quasi contemporaneamente catapultando il visitatore in una dimensione quasi onirica in cui il passato si fonde al presente.

Museo della Padova Ebraica
L’ingresso al Museo
...

All’interno del Museo della Padova Ebraica, in via delle Piazze, 26/a, gestito da Coopculture c’è anche un piccolo Bookshop con i testi fondamentali per approfondire l’ebraismo e la sua storia ed alcuni oggetti di merchandising.

Un’occasione in più quindi per padovani e turisti di godersi l’atmosfera di questa bella zona del centro storico di Padova passeggiando tra stretti viottoli ed ammirando i suoi bei palazzi, gli edifici medievali, i negozietti e molti bar ed enoteche dove sorseggiare un buon bicchiere di vino accompagnato magari da qualche “spuncione”, piccole tartine o piattini di vari genere.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El gheto de Pava

Messaggioda Berto » mer gen 27, 2016 11:59 am

L'antica zona del Ghetto e la vita della comunità ebraica a Padova
Ultimo aggiornamento: 13/08/2014

http://www.padovanet.it/informazione/ghetto

A sud della piazza delle Erbe si snoda un labirinto di strade strette che formano il Ghetto ebraico, operante dal 1603 e abolito nel 1797, anno in cui, sotto la spinta della Rivoluzione Francese, gli ebrei furono dichiarati liberi e uguali.
I primi insediamenti ebraici a Padova risalgono al secolo XII, ma è dopo la metà del '300 che la comunità cresce e si sviluppa, grazie anche alla nascita dell'Università che, a differenza di tutte le altre in Italia ed in Europa, ha sempre accettato studenti di ogni religione, inclusa quella ebraica. In epoca comunale e carrarese poi, lo sviluppo dei commerci richiama in città molti prestatori di denaro e venditori di oggetti di seconda mano, facendo così diventare Padova punto di incontro di ebrei di diversa provenienza e cultura. Gli insediamenti originali di S. Leonardo (lungo il Tronco Maestro del Bacchiglione, nei pressi di Via Savonarola) divennero presto insufficienti e poco pratici, data la lontananza sia dalla zona dei commerci di Piazza delle Erbe, che dall'Università. Si crearono così tre raggruppamenti: gli italiani nella zona di Porta Altinate, i tedeschi (askenaziti) e gli spagnoli (sefarditi) nella zona dietro S. Canziano.

Nel '400 i decreti spagnoli di espulsione di tutti gli Ebrei dai loro possedimenti e la confisca dei loro beni, spinsero molte famiglie verso l'Italia e in particolare verso la Toscana e la Repubblica di Venezia, la cui legislazione era decisamente più tollerante. Nella prima metà del secolo sono soprattutto gli ebrei romani ad arrivare a Padova, il loro primo insediamento nella Terraferma veneta, spinti dalla rigidità dello Stato delle Chiesa. Molte famiglie si spostano poi, principalmente per ragioni d'affari, in altre zone della regione, spesso verso il vicentino. La comunità ebraica tedesca askenazita, in genere proveniente da Treviso, si insedia fortemente a partire dalla seconda metà del Quattrocento.

Dopo la guerra della Lega di Cambrai contro la Repubblica Veneta e i conseguenti assedi di Padova che si protrassero dal 1509 al 1513, anche la comunità italiana si trasferisce nella zona a ridosso di Piazza delle Erbe, in quello che diverrà poi il Ghetto di Padova.
Palazzi del Ghetto

Il ghetto, "Loco stabile et separato, deputato agli Ebrei; né alcun cristiano in quello possi star, overo tegnir botéga", come diceva un avviso del 1603, era chiuso di notte da quattro porte sorvegliate ciascuna da un ebreo e da un cristiano, pagati dalla Comunità Ebraica: quella settentrionale in via delle Piazze, poco a sud di San Canziano; quella orientale, la porta di Santa Giuliana, fatta costruire dal podestà e dal gran consiglio, in via San Martino e Solferino un tempo via Sirena, vicino allo sbocco in via Roma; quella occidentale nella stessa strada, prima dell'incontro con via dei Fabbri; quella meridionale in via dell'Arco, dove confluisce in via Marsala. Queste porte impedivano l'uscita degli ebrei dopo le due di notte; nel 1797 furono abbattute e gli ebrei vennero chiamati a far parte della municipalità. Rimangono tracce dei cardini presso il lato occidentale della Chiesa di S. Canziano e presso una parete di un edificio all'incrocio di via S. Martino e Solferino con via Roma, dove due lapidi, una in latino e l'altra in ebraico, ricordavano agli ebrei di ritirarsi all'interno del loro quartiere al tramonto.

Nel '600 quasi tutti gli Ebrei d'Italia sono ormai rinchiusi nei ghetti. I ghetti italiani sono formati o di un grande cortile rettangolare, lungo il quale sono allineate le case, coi negozi e le abitazioni intercomunicanti, il tipico chatzèr, ossia cortile; oppure di una via o di una piazza centrale nella quale sboccano viuzze laterali secondarie, o di un complesso di stradine formanti un piccolo quartiere nel centro (come nel caso di Padova); oppure anche, i più piccoli, di una sola contrada coi due portoni agli sbocchi.
Nessun ebreo può abitare fuori del ghetto, né uscirne senza il "segno giudaico" (rotella gialla o bianca e rossa, o cappello giallo, o con nastri gialli o velo giallo). Soltanto la Repubblica Veneta permetteva agli Ebrei di passaggio di girare tre giorni senza.
Nel '600 nel Ghetto vi erano ben 63 frequentatissime botteghe in cui si vendeva di tutto. Gli ebrei esercitavano però soprattutto l'arte della "strazzeria", il piccolo commercio di cose usate, con le loro botteghe assai frequentate. Molti si dedicarono all'industria degli argentieri da loro iniziata e portata a grande sviluppo, fino al 1777 quando la Repubblica Veneta permise di esercitare il solo mestiere della "strazzaria". Visto che non erano ammessi presso le corporazioni di Arti e Mestieri, praticavano il prestito del denaro, attività vietata ai cristiani e che garantì a molti prestatori il diritto di residenza grazie all'intercessione dei Signori feudali, che avevano sempre la necessità di procurarsi rapidamente il denaro per mantenere le proprie milizie. Ai loro "banchi" ricorrevano studenti e professori per prestiti e pegni. Il primo banco ufficiale gestito da un ebreo risale al 1372 preso ponte Molino; un altro cominciò la sua attività nel 1369 in piazza delle Legne (attuale Piazza Cavour), dove pare sorgesse anche una sinagoga. Pian piano le loro attività cominceranno a gravare intorno alla zona dove sorgerà successivamente il ghetto.
Dato che agli ebrei era vietato risiedere altrove, come a Venezia, le case del quartiere, eterogenee e spesso ricche di elementi di recupero, si sono sviluppate in altezza e, nonostante le trasformazioni e i rifacimenti, conservano ancora l'impianto romanico. Di particolare interesse le quattro colonne con capitelli tutti diversi in via San Martino e Solferino, di fronte all'imbocco di via dell'Arco. In via dell'Arco si trova l'Hotel Toscanelli, un tempo sede dell'Accademia Rabbinica, di cui oggi conserva ancora un caminetto con lo stemma della famiglia Salom.
All'incrocio con via Spirito Santo e via Marsala si possono ancora osservare le case-torri sopraelevate, tipiche del quartiere ebraico. Palazzo Strozzi, al n. 37 di Via S. Martino Solferino, fu sede delle attività economiche dell'esule fiorentino Palla Strozzi che nel 1434 giunse a Padova. Si narra che il vecchio mercante controllasse i suoi garzoni che tenevano un banco in Piazza delle Erbe dal balconcino sotto il portico. Poco oltre, attraverso un sottoportico, si raggiunge la Corte Lenguazza, con loggetta e ruderi della vecchia Sinagoga. In passato costituiva l'animato centro sociale e religioso del quartiere: qui vi si potevano acquistare gli azzimi e la carne preparata secondo i rigidi precetti ebraici. Verso est, in Via delle Piazze, sorgeva la prima grande Sinagoga di rito tedesco che fu inaugurata nel 1525 e che nel 1943 venne distrutta da un incendio. Il suo restauro è stato terminato nel 1998.


Su prenotazione è possibile visitare alcuni dei sette cimiteri ebraici ancora esistenti quelli antichi nell'area del Borgese, con tombe di personalità celebri dell'ebraismo europeo; quello moderno di Brusegana, le cui tombe sono testimonianza diretta dell'importante ruolo svolto in città dagli ebrei nell´Ottocento. Altra testimonianza importante dell'ebraismo padovano è il Palazzo Cumano in via San Gregorio Barbarico che nel XIX secolo ospitava invece il Collegio Rabbinico del Lombardo Veneto, a cui confluivano studenti del rabbinato di tutto l'impero asburgico.
Nel corso del 1800 il ghetto entrò a pieno diritto nella vita cittadina e soprattutto di quella degli studenti. Arnaldo Fusinato ricorda l'origine del modo di dire "restare in bolletta": gli studenti senza soldi vendevano il loro mantello nel ghetto in cambio del quale ricevevano una carta bollata (bolletta).
Dopo l'applicazione delle leggi razziali del 1938 la comunità ebraica di Padova contava circa 300 iscritti e dopo la liberazione erano circa 200. I deportati senza ritorno furono 46.
La bellezza del ghetto sta nelle sue vie anguste, nelle suggestive facciate di alcuni palazzetti, nelle altissime abitazioni, nelle piccole botteghe d'antichissima tradizione, che si sono diffuse anche nelle vie circostanti dopo la soppressione del Ghetto.
Oggi in questa suggestiva zona si concentrano molte enoteche e localini tipici.
Appena fuori dal confine del ghetto storico, in via Marsala, si trova Palazzo Papafava dei Carraresi (vedi sito www.turismopadova.it) di una delle più antiche e importanti famiglie della città.

Dove si trova: la zona tuttora chiamata popolarmente "Ghetto" si estende tra via Marsala a sud, via Roma a est, piazza del Duomo-via Barbarigo a ovest e via Manin-piazza delle Erbe-via San Canziano a nord. Ha come asse principale via San Martino e Solferino.
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Re: El gheto de Pava

Messaggioda Berto » mer gen 27, 2016 12:01 pm

Storia del ghetto di Padova

http://www.inghetto.it/storia.html

A sud della Piazza delle Erbe si snoda un labirinto di strade strette che formano il Ghetto ebraico, operante dal 1603 e abolito nel 1797, anno in cui, Napoleone dichiarò gli ebrei liberi e uguali.
E’ dal secolo XII che i primi ebrei iniziano ad insediarsi a Padova ma è dopo la metà del ‘300 che la comunità cresce e si sviluppa, grazie anche alla nascita dell’Università che, a differenza di tutte le altre in Italia ed in Europa, ha sempre accettato studenti di ogni religione, inclusa quella ebraica.
In epoca comunale e carrarese poi, lo sviluppo dei commerci richiama in città molti prestatori di denaro e venditori di oggetti di seconda mano, facendo così diventare Padova punto di incontro di diversa provenienza e cultura.
Gli insediamenti ebbero inizio nella zona di S.Leonardo (lungo il Bacchiglione, nei pressi di via Savonarola) ben presto però divennero insufficienti e poco pratici, data la lontananza sia dalla zona dei commerci di Piazza delle Erbe, che dall’Università.
Si crearono così tre raggruppamenti:gli italiani nella zona di Porta Altinate, i tedeschi e gli spagnoli nella zona di S.Canziano.
Dopo la guerra della Lega di Cambrai contro la Repubblica Veneta e i conseguenti assedi di Padova che si protrassero dal 1509 al 1513 anche la comunità italiana si trasferisce nella zona a ridosso di Piazza delle Erbe in quello che diverrà poi il Ghetto di Padova.
Il Ghetto, “Loco stabile et separato, deputato agli ebrei; ne’ alcun cristiano in quello possi star, overo tegnir bottega”, come diceva un avviso del 1603, era chiuso di notte da quattro porte sorvegliate ciascuna da un ebreo e da un cristiano, pagati dalla comunità ebraica: quella settentrionale in via delle Piazze, poco a sud di S.Canziano; quella orientale, la Porta di S.Giuliana, fatta costruire dal Podestà e dal Gran Consiglio, in via S. Martino e Solferino un tempo via Sirena, vicino allo sbocca in via Roma; quella occidentale nella stessa strada prima dell’incrocio con via dei Fabbri; quella meridionale in via dell’Arco dove confluisce con via Marsala.
Queste porte impedivano l’uscita degli ebrei dopo le due di notte; nel 1797 furono abbattute e gli ebrei vennero chiamati a far parte della municipalità. Nel ‘600 quasi tutti gli ebrei d’Italia sono ormai rinchiusi nei Ghetti.
I Ghetti italiani sono formati o da un grande cortile rettangolare, lungo il quale sono allineate le case, con i negozi e le abitazioni intercomunicanti il tipico chatzér, ossia cortile; oppure da una via o una piazza centrale nella quale sboccano viuzze laterali secondarie, o da un complesso di stradine formanti un piccolo quartiere nel centro (come nel caso di Padova); oppure anche, i più piccoli, da una sola contrada coi due portoni agli sbocchi. Nessun ebreo può abitare fuori dal Ghetto, ne’ uscirne senza il “segno giudaico” (rotella gialla o bianca e rossa, o cappello giallo, o con nastri gialli o velo giallo).
Soltanto la Repubblica Veneta permetteva agli ebrei di passaggio di girare per tre giorni senza alcun segno distintivo.
Nel ‘600 nel Ghetto vi erano ben 63 frequentatissime botteghe in cui si vendeva di tutto.
Gli ebrei esercitavano però soprattutto l’arte della “strazzaria”, il piccolo commercio di cose usate.
Molti si dedicarono all’industria degli argentieri da loro iniziata e portata a grande sviluppo, fino al 1777 quando la Repubblica Veneta permise di esercitare il solo mestiere della “strazzaria”.
Visto che non erano ammessi presso le Corporazioni di Arti e Mestieri, praticavano il prestito del denaro, attività vietata ai cristiani e che garantì a molti prestatori il diritto di residenza grazie all’intercessione dei Signori feudali che avevano sempre la necessità di procurarsi rapidamente denaro per mantenere le proprie milizie.
Ai loro “banchi” ricorrevano studenti e professori per prestiti e pegni. Dato che agli ebrei era vietato risiedere altrove, come a Venezia, le case del quartiere, eterogenee e spesso ricche di elementi di recupero, si sono sviluppate in altezza e , nonostante le trasformazioni e i rifacimenti, conservano ancora l’impianto romanico.
Di particolare interesse le quattro colonne con capitelli tutti diversi in via S.Martino e Solferino, di fronte l’imbocco di via dell’Arco. In via dell’Arco si trova l’Hotel Majestic Toscanelli un tempo sede dell’Accademia Rabbinica, di cui oggi conserva ancora un caminetto con lo stemma della famiglia Salom.
In via dell’Arco si possono ancora osservare le case- torri sopraelevate, tipiche del quartiere ebraico.
Palazzo Strozzi al civ.37 di via S.Martino e Solferino fu sede delle attività economiche dell’esule fiorentino Palla Strozzi che nel 1434 giunse a Padova. Si narra che il vecchio mercante controllasse i suoi garzoni che tenevano un banco in Piazza delle Erbe da un balconcino sotto il portico. Poco oltre attraversata la strada si trova un sottoportico, oltrepassato il quale si entra nella Corte Lenguazza, con loggetta e il retro della vecchia sinagoga di rito tedesco.
In passato costituiva l’animato centro sociale e religioso del quartiere: qui vi si potevano acquistare gli azzimi e la carne preparata secondo i rigidi precetti ebraici.
In via delle Piazze, sorge la prima grande sinagoga di rito tedesco che fu inaugurata nel 1525 e che nel 1943 una squadra di fascisti la incendiò. Il suo restauro è stato ultimato nel 1998.
In via San Martino e Solferino al civ. 13 , subito dopo l’incrocio con via delle piazze si trova la sinagoga di rito italiano,di fronte ad essa, un po’ a sinistra e in alto al terzo piano, si può vedere un loggiato con sei colonnine bianche. Li c’era la sinagoga di rito spagnolo.
Nella fine dell’ottocento i tre riti furono riuniti nella grande sinagoga tedesca, dove si praticò il solo rito italiano. Alla fine della seconda guerra mondiale fu riaperta al rito la sinagoga italiana.
Nel corso del 1800 il Ghetto entrò a pieno diritto nella vita cittadina e soprattutto in quella degli studenti.
Arnaldo Fusinato ricorda l’origine del modo di dire “restare in bolletta”: gli studenti senza soldi vendevano il loro mantello nel Ghetto, in cambio del quale ricevevano una carta bollata (bolletta).
La bellezza del Ghetto sta nelle sue vie anguste, nelle suggestive facciate di alcuni palazzetti, nelle altissime abitazioni, nelle piccole botteghe di antichissima tradizione, che si sono diffuse anche nelle vie circostanti dopo la soppressione del Ghetto.
Oggi in questa suggestiva zona si concentrano molte attività commerciali caratteristiche.

Fonti:www.padovanet.it
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: El gheto de Pava

Messaggioda Berto » gio set 26, 2019 6:46 am

Medicina a Padova nei secoli: gli ebrei e l'università

https://ilbolive.unipd.it/it/news/dal-g ... -11Ue2x1DI

Pratica del Salasso, Trattato medico in cinque parti, Italia settentrionale, sec XV, ms. Dd.10.68, f. 211r, Cambridge, University Library. © Licenza CC BY-NC 3.0 (https://cudl.lib.cam.ac.uk/view/MS-DD-00010-00068/423 )

In Europa gli ebrei svolsero fin dall’età medievale un ruolo di primo piano nella storia della medicina e con l’Università di Padova in particolare, con i suoi docenti e con i suoi studenti, intrecciarono nei secoli rapporti di reciproco scambio culturale.

A Padova già nel 1255, dunque fin dai primi tempi di attività dello Studio, l’ebreo Bonacasa traduceva in latino i Principi generali di medicina di Averroè (1126-1198) con il titolo di Colliget, mentre Hillēl ben Samuel negli stessi anni volgeva dal latino all’ebraico la Chirurgia magna di Bruno da Longobucco (inizio XIII secolo -1286), terminata sempre a Padova nel 1253.

I medici ebrei per molti secoli non poterono ottenere la laurea, anche se questo non impediva loro di esercitare. La fiducia nella loro competenza professionale è testimoniata dalla loro presenza come archiatri, cioè come medici personali, alla corte di papi, imperatori, dogi, visir e sultani.

Il giurista Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), nel suo commento al Corpus iuris civilis, spiegava che gli ebrei, essendo esclusi per legge da ogni carica pubblica assieme ad apostati ed eretici, non potevano ottenere la laurea, perché ciò avrebbe conferito loro una giurisdizione sugli studenti. A tal riguardo, ricordava il caso che gli venne sottoposto di due brillanti studenti ebrei dell’Università di Parigi a cui venne negato il titolo dottorale. I Giuristi dello Studio di Padova come Ubaldo degli Ubaldi (1327-1400), Giasone de Maino (1435-1519), Angelo degli Ubaldi (1328-1407?) e Filippo Decio (1454-1535 ca.) confermarono e ribadirono più volte la stessa posizione.

Aforismi di Ippocrate secondo la traduzione di Hillel ben Samuel di Verona; Zürich, Braginsky Collection, B125, f. 1r. © Licenza CC, Ippocrate, Aforismi (http://www.e-codices.ch/it/bc/b-0125/1r )

A dispetto di questo divieto, dai primi anni del XV secolo, iniziarono a comparire nelle fonti le prime attestazioni di ebrei laureati in medicina per mezzo di dispense papali. Questo fenomeno continuò fino a metà del Cinquecento, per coronarsi nel 1529 quando il giudeo Jacob Martino, già dottore in medicina, salì in cattedra nello Studio bolognese.

A Padova invece il medico, umanista e rabbino Leone di Vitale (Yehuda ben Yechiel), il 27 febbraio 1470, rilasciava il titolo dottorale ad uno studente israelita. Il privilegio di conferire lauree a studenti ebrei gli era stato concesso dall’Imperatore Federico III che aveva nominato Leone cavaliere.

Tra i diritti dell’imperatore vi era infatti quello di attribuire le lauree e, conseguentemente, la possibilità di delegare altri in questo esercizio. Questa facoltà compariva tra i privilegi dei conti palatini che rilasciarono a Padova lauree a studenti fino al 1615 quando questo diritto venne abrogato.

Sebbene le lauree conferite dai conti palatini avvenissero “al di fuori dello Studio”, da moltissimi indizi risulta certa la frequentazione di ebrei nell’Università degli Artisti. Un esempio di queste frequentazioni è il caso di Mosè Bonavoglia (1395-1445 ca.), inviato dai sovrani aragonesi nel 1416 nello Studio di Padova per perfezionarsi in medicina e che ritroviamo più tardi citato come dottore in arti e medicina.

Avicenna

Visita medica, Avicenna, Canon medicinae, Italia settentrionale, c. 1440; Bologna, biblioteca universitaria, ms. 2197, f. 402r (part.) © Su concessione della Biblioteca Universitaria di Bologna

Qualche tempo dopo, nel 1480, giunse a Padova da Candia il medico, filosofo e traduttore Elia del Medigo (1455 ca.-1492/3), probabilmente il più autorevole interprete israelita della filosofia aristotelico averroista del XV secolo in Italia, oltre che grande conoscitore dell’opera di Mosè Maimonide. Elia ebbe modo di confrontarsi pubblicamente con i docenti dello Studio e in una sua opera testimonia di aver scritto trattati in latino proprio per farli leggere ai dotti nelle loro accademie. All’università discusse delle tesi sulla causalità divina confrontandosi con Antonio Pizzamano (1461/2-1512), Domenico Grimani (1461-1523) e Girolamo Donà che esortò Elia a scrivere trattati. Domenico Grimani invece sosteneva l’attività di traduzione (e beneficiò delle cure mediche) di Abramo di Balmes (morto nel 1523), il grammatico e filosofo laureatosi in arti e medicina con dispensa papale di Alessandro VII.

All’Università di Padova Del Medigo incontrò anche il giovane studente Pico della Mirandola, iniziandolo allo studio dell’ebraico e traducendo per lui molti testi dall’arabo e dall’ebraico. Pico apprese invece le derive del cabalismo – che Elia aveva demistificato filologicamente – da Yohanan Alemanno, uno studioso laureato a Padova dieci anni prima da Leone di Vitale.

Laurea di Moshe David Valle, Padova, 1713. Promotore di questo laureato fu Bernardino Ramazzini. © Biblioteca del monumento statale di Praglia. Foto A. Gheller

In questa attività di traduzione e stampa in latino di fine Quattrocento vanno menzionati anche gli aforismi di Mosè Maimonide che terminavano con una aperta critica al metodo di Galeno: per Maimonide (1135-1204) l’osservazione diretta del corpo umano costituiva un momento fondamentale per la conoscenza e la pratica medica che non poteva essere trascurato. Mosè anticipava in questo modo le posizioni di anatomisti come Berengario da Carpi (1460 ca.-1550), Gabriele Zerbi o Alessandro Benedetti (1450-1512) che aprirono la strada al fondamentale contributo di Andrea Vesalio (1514-1564) nel Cinquecento.

Talvolta furono le grandi personalità dello Studio come Gabriele Falloppia (1523-1562), Girolamo Fabrici d’Acquapendente (1537-1619) e Galileo Galilei a promuovere lauree di ebrei; Galilei in particolare appoggiò la laurea dell’ebreo mantovano Davide Pantaleone, nipote di Abraham, il grande medico che curò, tra gli altri, il re di Napoli Ferdinando d’Aragona, Galeazzo Maria Sforza e Giovanni dalle Bande Nere. Abraham riuscì a guarire da una ferita il condottiero una prima volta, ma una seconda inferta da un colpo di falconetto costò a Giovanni l’amputazione dell’arto, senza comunque evitargli di morire di cancrena.

Tobia Cohn

A sx: Tobia Cohn, "Ma'aseh Toviyyah", Venezia 1708. Gli organi del corpo umano vengono paragonati a parti di una casa. © Licenza CC Houghton Library, Heb 7459.800*, Harvard University. A dx: ritratto di Tobia Cohn, Wellcome Images

Tra il XVI e la fine del XVIII secolo l’Università di Padova divenne il più grande centro di insegnamento in Europa per gli scolari ebrei, in un clima di sostanziale tolleranza e protezione promosso dalla Serenissima, che andava in controtendenza rispetto al resto d’Europa. A Padova giungevano scolari provenienti da lontane comunità d’Europa.

Nel 1616 venne istituito il Collegio veneto e gli ebrei cominciarono ad addottorarsi in quella sede: è stato calcolato che tra il 1619 e il 1721 non meno di 149 ebrei si laurearono a Padova, stima che sale a 325 se calcolata fino al 1816. Questi studenti erano esentati dall’obbligo di indossare l’infamante berretta rossa che tutti gli ebrei erano tenuti a portare al di fuori del ghetto, segno distintivo che, in diverse forme, restò in uso a Padova fino alla caduta della Serenissima nel 1797.

Questo non significa che gli studenti israeliti non fossero soggetti a vessazioni: nel giorno della laurea dovevano offrire al bidello 170 libbre di dolci in 35 pacchetti che sarebbero poi stati distribuiti a ognuna delle nationes, corporazioni di studenti suddivisi per provenienza.

Ma ancora più deplorevole era il continuo ripetersi, a opera degli studenti dello Studio di Padova, di furti di cadaveri ebrei da dissezionare: sebbene la comunità israelitica avesse cercato di impedirlo anche pagando una tassa e avesse costruito un nascondiglio per riporre le salme prima della sepoltura, la pratica continuò a lungo, tanto che il Senato veneziano dovette intervenire più volte per scoraggiarla.

Laurea di Israel Conegliano, Padova 1673; Archivio dell'Università di Padova, ms. 282, Collegio Veneto Artista, dottorati in filosofia e medicina, licenziati in chirurgia (1672-1677). © Su concessione dell’Università di Padova-Ufficio Gestione documentale

Certamente tra tutti i dotti medici ebrei che si laurearono nello Studio di Padova tra Sei e Settecento meritano almeno di essere menzionati quelli appartenenti alla famiglia Conegliano e Tobias Cohn (1652-1729); quest’ultimo stampò a Venezia nel 1708 un compendio che ebbe grande fortuna e divenne più tardi il medico del Gran visir a Costantinopoli. Salomon Conegliano (1640-1719) costruì a Padova una scuola di avviamento universitario per i giovani studenti. Il fratello Israel (1650 ca.-1717) divenne medico alla corte ottomana e amico del bailo Giovanni Battista Donà che lo convinse a svolgere una rischiosissima operazione di spionaggio con l’aiuto anche del fratello Salomon: avrebbe dovuto informare Venezia degli spostamenti dell’esercito turco che stava muovendo verso una destinazione allora sconosciuta: Vienna. Cinta d’assedio dai turchi a luglio del 1683, la città imperiale sarebbe stata liberata tre mesi dopo dalla cavalleria del re polacco Giovanni III Sobieski.

L’anno successivo polacchi, imperiali e veneziani assediarono invano Buda (che restava turca) e gli ebrei vennero accusati del fallito assedio. Così, mentre la famiglia Conegliano sventava diverse congiure ordite contro Venezia, il popolo padovano ignaro di tutto entrava nel ghetto saccheggiandolo e accusando gli ebrei di essere nemici della Serenissima.

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