7) La inconsistente e fasulla democrazia diretta dei grillini. La democrazia diretta del web è solo una illusione, un specchietto per i tordi internettiani seguaci di Grillo il pataccaro illusionista delle piazze.
La vera democrazia diretta non è quella di eleggere i rappresentanti politici attraverso il web, ma quella di esercitare la sovranità votando in ogni dove su tutte le questioni importanti e oltretutto non può essere che federale, assolutamente non centralista, referendaria e comunale come in Svizzera..
SULLA COSIDDETTA “DEMOCRAZIA DIRETTA” DEI GRILLINI1 marzo 2016
http://www.glistatigenerali.com/partiti ... i-grillini Quello della democrazia diretta è un concetto oggi forsennatamente brandito da variopinti capipopolo totalmente digiuni di ogni sapere politico e che pure trascinano con sé masse di giovani nonché un terzo dell’elettorato italiano. E ciò è da un lato semplicemente spaventoso perché irretisce una massa di ignari e di “absolute beginners” politici, un po’ meno dall’altro ove si consideri che questo democraticismo estremo è totalmente falso, ossia di facciata, un trucco. Ma non è paradossale la considerazione che l’oltranzismo dei grillini e la formula “uno vale uno” essendo una semplice frode a danno dei più per garantire un potere incontrollato alle oligarchie che governano il MoVimento ci sollevi dalla preoccupazione di un pericolo reale che le loro confuse asserzioni pur prefigurano?
Non è chiaro se i pensatori del MoVimento si richiamino a Rousseau ossia al suo democraticismo rigoroso che si rivolta in totalitarismo come ormai è pacifico fra gli studiosi che hanno letto il filosofo ginevrino dopo l’ubriacatura ideologica degli anni ’70, epoca che inscriveva il suo pensiero direttamente nel perimetro del democraticismo marxista visto allora come un punto progressivo e non quello spaventoso preambolo alla “democrazia totalitaria” del cosiddetto socialismo reale in cui la “sovranità generale” era amministrata dal Politburo in nome e per conto del proletariato.
In ogni caso è bene fare chiarezza anche sulla cosiddetta democrazia diretta di Rousseau appigliandoci a qualche studio recente sull’Illuminismo. Per schiarirci le idee in tema trascriverò due paginette (pp.58-59) di “Una rivoluzione della mente. L’illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia moderna” di Jonathan Israel (Einaudi 2011) che sembrano scritte proprio per noi, per il nostro confuso quadro politico. (I grassetti sono miei).
«Rifiutando la diretta o “semplice democrazia” come la chiamava Paine, del tipo raccomandato da Rousseau, i primi artefici della rivoluzione filosofica democratica, in Olanda, come in Francia e in Gran Bretagna, cercavano una soluzione convincente al problema di come organizzare una democrazia effettiva e praticabile. Il principale strumento politico individuato era quello della rappresentanza intesa come modo di organizzare democrazie di vasta scala su basi realizzabili e stabili e di democratizzare le monarchie miste.
Un’idea chiaramente delineata da Diderot, d’Holbach e dalla loro “sinagoga” parigina intorno al 1763 per la voce “Représentants” nell’Encycolpédie, da quel momento fortemente presente nel lavoro, tra gli altri, di d’Holbach e Mably. Costituiva anche una delle differenze fondamentali tra quella che si potrebbe chiamare la linea principale dell’ideologia repubblicana radicale europea negli anni sessanta e settanta del Settecento, con la sua istanza per una stampa libera, non soggetta a regole, e il deviazionismo repubblicano di Rousseau, con la sua concezione radicalmente diversa di “volontà generale” e la sua richiesta di una forte censura sulla stampa*. L’idea che la sovranità popolare, essendo assoluta, non potesse essere delegata e che i rappresentanti avrebbero dovuto quindi sempre essere controllati, rigidamente comandati dai costituenti e soggetti a censura, restava infatti una delle dottrine fondamentali di Rousseau.
La concezione di Rousseau si sviluppò in seguito nella retorica rivoluzionaria della “volontà”, del sentimento e dalla sovranità popolare assoluta, che si opponeva all’impulso dell’Illuminismo radicale interno alla Rivoluzione francese, al discorso della “ragione”, come è stato opportunamente chiamato. ** La nozione di Rousseau di una sovranità “assoluta e inalienabile”, qualcosa che non poteva essere “né delegato né rappresentato”, richiede una forte censura della stampa, specialmente per controllare l’influenza dei philosophes modernes che egli accusava di propagare idee su Dio, l’anima, il patriottismo e le donne completamente contrarie a quelle della gente comune. Gli obiettivi politici di Rousseau, di conseguenza, miravano a un programma che i philosophes radicali – d’Holbach, Diderot, Helvétius e Mably, e tutti i più importanti portavoce dei patriotten olandesi – disapprovavano in misura diversa e volevano consapevolmente evitare. D’Holbach e Diderot, inoltre, negavano che il loro modello implicasse qualunque riduzione della libertà individuale rispetto a quella di Rousseau. Sovrana in apparenza, in realtà la gente comune in una democrazia diretta è schiava dei “demagoghi perversi” che sanno come manipolarla e adularla. Nella democrazia diretta la gente spesso non ha una concezione reale di che cosa sia la libertà e il suo governo può essere più rigido di quello del peggiore dei tiranni. La libertà senza la ragione, sosteneva d’Holbach, ha un valore in sé insufficiente; di conseguenza “la storia della maggior parte delle repubbliche – ammoniva – richiama di contunuo alla mente l’immagine sinistra di nazioni che fanno il bagno nel proprio sangue a causa dell’anarchia”
L’illuminismo radicale, dunque, è definito in parte da una netta, anti rousseauiana preferenza per la democrazia rappresentativa».
*J. Miller, Rousseau: Dreamer of Democracy, New Haven, 1984, pp- 64, 80, 116-18, 120.
** K.M. Baker, Reason and Revolution: Political Consciousness and Ideological Invention at the End of tre Old Regime, Dordrecht 1991, pp. 79-91.
La democrazia diretta secondo il M5s e la Casaleggio Associatidi Lorenzo Castellani
2016/12/19
https://www.ilfoglio.it/politica/2016/1 ... tta-111724 Se si volesse usare un’espressione della scienza politica si direbbe che quella imposta a Roma dai 5 stelle è una governance ibrida. Significa che istituzioni pubbliche e private si fondono insieme, annacquando i confini tra una società di capitali e il Comune di Roma, tra spazi della politica e funzionamento del management privato. Ciò che i grillini stanno mostrando nella Capitale, ma la dinamica si ripete anche altrove e persino su scala nazionale, è la sovrapposizione tra la Casaleggio Associati, la leadership carismatica di Grillo e le istituzioni pubbliche. Dal punto di vista dell’analisi politica stiamo assistendo ad un fenomeno inedito in cui profitti privati, leaderismo e governo della cosa pubblica s’intrecciano tra loro delineando uno scenario da romanzo utopico.
La democrazia diretta dei pentastellati è effettivamente “diretta” da una società privata e dal suo speaker. Per la prima volta la sovranità politica che si nutre della democrazia viene appaltata ad una società d’affari che si occupa del decision-making e delle nomine pubbliche. Vista al microscopio la struttura dei grillini si basa su due basi fondamentali: Grillo e la Casaleggio Associati. Intorno a questi si muovono gli eletti della rete e, quando conquistate, tutte le decisioni fondamentali della vita istituzionale. I due pilastri, società privata e leader, decidono inoltre il funzionamento politico: luogo e modalità delle riunioni, quando gli iscritti votano o meno sul blog, chi sale e chi scende nelle gerarchie del Movimento, quando si deve fare lo streaming o meno.
Lo staff della società di comunicazione decide, insomma, sugli strumenti per l’esercizio del potere. E’ una struttura complessa, ma abbastanza flessibile da poter essere piegata alla bisogna del momento. Fin tanto che le due basi fondamentali andranno d’accordo la molecola del Movimento 5 Stelle può continuare a funzionare, ma come ogni meccanismo di potere richiede la selezione continua di vincitori e vinti che le due matrici del partito stabiliscono a seconda delle occasioni e delle problematiche. Chi si mette di traverso viene espulso ed eliminato politicamente. Vediamo ora come, in termini partici, la governance ibrida dei grillini si organizza.
Prima di tutto la società privata detiene i simboli, gestisce tutta la comunicazione e i rapporti con la stampa, stabilisce meccanismi di accesso alla partecipazione, scrive i regolamenti, gestisce l’hub di siti e blog, guadagna con la pubblicità derivante dal numero delle visualizzazioni su queste piattaforme. In secondo luogo, questa profila i candidati ad una determinata carica e spinge quello che ha maggiori probabilità di successo elettorale verso la vittoria delle elezioni. Non esistono meccanismi pubblici di riscontro e verifica dei voti espressi quindi, per quanto è possibile saperne, il sistema di voto elettronico utilizzato dal Movimento potrebbe anche manipolare il numero e le preferenze effettivamente espresse dagli utenti. I risultati, insomma, potrebbero essere predeterminati o influenzati dalla Casaleggio&Associati. Lo stesso meccanismo si determina a livello nazionale sia in termini elettorali che mediatici in cui la società decidere chi sponsorizzare presso i media in un dato momento, chi prende parte alle decisioni, chi può scrivere o effettuare dichiarazioni, chi partecipa alle consultazioni e via dicendo.
Una volta al governo, il capo carismatico Beppe Grillo e il titolare della società privata, Davide Casaleggio, decidono come risolvere i problemi politici con riunioni riservate, telefonate, spostamenti di incarichi, sostituzioni, selezioni del personale politico. In questo caso, gli iscritti del Movimento non hanno facoltà di intervento o di voto su queste dinamiche. Infine, l'eletto firma un contratto con la società privata che gestisce il partito. Il contratto prevede che sulle questioni politico-giuridiche importanti l'eletto consulti la società privata per risolvere tali questioni secondo il volere del titolare e di Beppe Grillo. Se viola le regole viene disconosciuto, perde l’utilizzo del simbolo e deve pagare una sostanziosa penale.
Questa struttura e questo insieme di tecnologie del potere, qui descritte secondo il canone machiavellico della “realtà effettuale della cosa”, ha permesso, fino ad oggi, al Movimento 5 stelle di superare i momenti di impasse o difficoltà politica e di sfruttare i momenti favorevoli. La prova dei fatti, a livello elettorale, è l’oscillazione tra la stabilità nei consensi e la crescita elettorale. Una meccanica infernale, ma funzionante.
Certo, il successo di questi metodi non può offuscare una riflessione sulle conseguenze che questi determinano a livello politico e, sopratutto, istituzionale. Perché, nel caso del Movimento 5 stelle, le istituzioni e le decisioni pubbliche vengono colonizzate da una società privata. Gli elettori si limitano a scegliere i candidati quando e come la Casaleggio Associati lo richiede. Un sistema non troppo distante da quello dei vecchi partiti, ma con l'aggravante che in questo caso non esistono organismi collegiali e congressi regolati.
La partecipazione è one-shot: in un colpo solo quando disposto dal capo carismatico e dal titolare della società privata. Così i governanti eletti diventano, di fatto, dipendenti della società di comunicazione che possono essere licenziati in qualsiasi momento di difficoltà politica. Pubblico e privato si fondono a livello decisionale perché le decisioni pubbliche vengono prese da una società di capitali. Così il potere privato risucchia le istituzioni pubbliche. Il governo dei 5 stelle è un esecutivo privatizzato e contrattualizzato nel quale l’obbligazione contrattuale sostituisce l’obbligazione politica a livello fondamentale cioè nelle stanze del governo e nei meccanismi partitici. Un nuovo vincolo esterno è stato inventato e applicato: vincolo contrattuale attraverso cui una società di capitali gestisce, da lontano, le istituzioni pubbliche. Un assetto che mai è stato immaginato nemmeno nella più visionaria delle utopie ultra-liberiste.
Chi sono e come ragionanoVincenzo Latronico
21 settembre 2017
http://www.corriere.it/sette/17_settemb ... 2984.shtml «Perché ad Alcamo stanno facendo un lavoro eccezionale». «Perché gli altri sono tutti ladri e corrotti». «Perché è l’unico progetto politico partecipato dal basso». «Perché Fassino/Alemanno/Marino ha distrutto questa città». «Perché mi fido di Beppe». «Perché sono l’unica novità». «Perché con la loro incapacità faranno crollare il sistema e poi si potrà ricostruire». Da anni, quando incontro qualcuno che sostiene il Movimento 5 Stelle, sono abituato a chiedergli o chiederle le ragioni del suo voto. Le risposte che ottengo – fatta la tara agli insulti, e ai rifiuti opposti da chi sa che ogni tanto scrivo sui giornali – sono estremamente varie, e vanno dal riferimento a un’esperienza positiva di amministrazione locale all’odio per un altro partito ridotto a un nomignolo spregiativo; dalla fiducia nelle potenzialità rivoluzionarie della democrazia diretta online all’accelerazionismo di chi, sentendo una crisi in arrivo, vuole gettare benzina sul fuoco perché la catarsi sia più rapida e totale.
Sarebbe ingiusto vedere nella varietà di queste risposte un segno di inconsistenza ideologica. Negli anni qualunque elettore del Pd o dell’ex Pdl ha offerto un ventaglio di giustificazioni altrettanto ampio per le sue preferenze, con l’aggiunta di quel rassegnato «perché l’ho sempre fatto» che spesso è la motivazione più profonda. Ma a pensarci bene questa domanda, fatta agli elettori di un partito “tradizionale”, ha poco senso: perché la risposta vera quanto banale è «perché sono di sinistra/di destra», che sono etichette vaghe e mutevoli e spesso vuote, ma che qualcosa ancora vogliono dire. E chi vota il Movimento 5 Stelle cos’è? Come ragiona? Il Movimento 5 Stelle si è sempre definito «né di destra, né di sinistra», che di norma significa di destra. Eppure, per quanto oggi possa apparire implausibile, dietro la cortina fumogena dei cicli di notizie sempre più veloci e dalla propensione al revisionismo di certi suoi esponenti, nei suoi primi anni era animato da valori e parole che si riferivano esplicitamente alla sinistra più marcata, come in effetti attesta già il termine “movimento”.
Un bel saggio uscito la scorsa settimana per Rosenberg&Sellier – Il movimento nella rete, di Paolo Ceri e Francesca Veltri – offre una ricostruzione storica molto precisa dei primi anni del M5S. All’epoca, Grillo citava come modello operativo il forum no-global di Porto Alegre; i politici che invitava come interlocutori erano Bertinotti, Pannella e Pecoraro Scanio. A leggere le prime discussioni – sul “muro del pianto”, la sezione del blog di Grillo da cui è partito tutto; nei meetup “Amici di Beppe Grillo”, da cui sono nate le prime liste civiche – appare chiaro che molti attivisti della prima ora erano persone con un passato di impegno movimentista, deluse dall’irrilevanza o dai compromessi dell’attivismo tradizionale, in cerca d’altro. Oggi questo sembra cambiato. Nel 2011 Luigi Di Maio segnalava il suo sostegno facendosi fotografare insieme a un gruppo di rifugiati, il soggetto politico più debole e oppresso che vi sia al momento in Italia; oggi è fra i primi a sostenere complotti fra ong e scafisti in nome di un “aiutiamoli a casa loro” che richiama la retorica della Lega Nord. La sindaca di Roma, e molti dei suoi collaboratori, non vengono dall’esperienza dei movimenti di sinistra ma dalla destra romana. Se nel 2009 lo schieramento politico di riferimento di Beppe Grillo era il Pd (alle cui primarie ha provato a candidarsi), nel 2014 il M5S a Bruxelles ha aderito senza esitazioni al gruppo parlamentare dell’Ukip, un partito xenofobo dell’estrema destra inglese. L’anno scorso, il blog di Grillo ha celebrato la vittoria di Trump, tracciando un paragone esplicito con M5S.
Eppure il programma del Movimento presenta ancora un impianto sostanzialmente di sinistra, con riferimenti frequenti – seppure a volte un po’ vaghi o semplicistici – ai beni comuni, al reddito di cittadinanza, all’importanza di garantire un accesso democratico a istruzione e sanità. Questo programma non è stato redatto dall’alto, bensì scritto e votato dagli iscritti al M5S attraverso il “sistema operativo” Rousseau. Potrebbe quindi apparire che questi iscritti non siano completamente allineati con la faccia pubblica della dirigenza del Movimento, ma siano, per dir così, “più a sinistra” – come storicamente di sinistra è il richiamo alla democrazia diretta incarnato dalla piattaforma Rousseau. Ma quindi questi iscritti chi sono?
È sempre delicato cercare di trarre conclusioni dai commenti che si trovano in calce a una pagina o un post. I commenti aggressivi e gli insulti sono spesso più facili da scrivere, e condividere, delle analisi ragionate; quindi il tono sarà sempre falsato in quella direzione. Non giova il fatto che il punto di incontro in rete dei simpatizzanti del Movimento non è più tanto beppegrillo.it (che stando ai dati Alexa ha perso l’86% di traffico rispetto al picco del 2013, e riporta 100-150 commenti a post rispetto agli oltre mille di quattro anni fa), ma una frammentaria galassia di pagine Facebook. Questo rende più facile che i commenti siano accuse contro gli esterni – troll o semplicemente persone che non condividono le idee esposte – o generiche dichiarazioni di appoggio anziché contributi a una discussione di idee.
Sfogliando i commenti sul blog di Grillo, sulle pagine Facebook di Di Maio e Di Battista, sarebbe facile trarre la conclusione che moltissimi dei simpatizzanti del Movimento siano antivax xenofobi e ringhianti odiatori dei “pidioti”. Sarebbe una conclusione falsa. A dire il vero sul vecchio blog di Grillo la “discussione” non c’è mai stata: i commenti, di qualunque sorta, si affastellavano a migliaia uno dopo l’altro, senza possibilità di costruire conversazioni strutturate e senza che il proprietario rispondesse mai a chi gli scriveva. Nelle primarie dei cittadini 2.0 del 2009, il primo grande momento di democrazia digitale del M5S, su oltre cinquemila commenti ne è stato accolto esattamente uno. All’epoca si diceva che era un problema legato alla piattaforma, e che con Rousseau sarebbe cambiato tutto. Adesso Rousseau c’è, e se si vuole capire come si ragiona nel M5S, forse il posto dove guardare è lì.
Rousseau è un sito a cui può accedere, come ospite, chiunque; per partecipare occorre essere iscritti da un po’ di tempo. Le due sezioni principali sono quelle in cui le proposte di legge degli eletti del M5S vengono sottoposte a “vizi di forma”, “modifiche” e “suggerimenti” degli iscritti, e quella in cui sono direttamente gli iscritti a proporre le loro leggi. Qui i commenti sono molti di meno, nell’ordine di poche decine per ogni post; e per più della metà sono generici segni di accordo: legiferare pare meno appassionante che litigare online. Ma quelli che lo fanno spesso avanzano proposte informate e ragionevoli, sembrano rafforzare l’idea della “intelligenza collettiva” che rende possibile eleggere cittadini onesti ma impreparati come portavoce di un movimento di persone con ogni sorta di competenza. Ci sono giuristi che suggeriscono come migliorare il ddl intercettazioni, nutrizionisti che precisano la composizione delle bevande alternative al latte, biologi che studiano le infezioni ospedaliere. Però il sistema non prevede la possibilità di rispondere a un messaggio – né da parte del firmatario della legge, né degli altri commentatori – e così spesso si assiste a un dialogo fra sordi, e le proposte vanno inascoltate. Questo non può essere un caso, visto che il sistema è stato progettato appositamente dal M5S.
La distinzione fra “suggerimenti”, “modifiche” e “vizi di forma” è solo un’etichetta che contrassegna i post, ma non obbliga l’estensore della legge a reagire, anche solo per dire di no. Che io sappia, nessuna modifica proposta da un iscritto è stata finora apportata; su oltre tremila proposte dirette degli iscritti, ne sono state portate in parlamento sei. Il commento – tecnico e approfondito – di un poliziotto a una legge sulle intercettazioni inizia con un: «VI PREGO DI LEGGERE PER FAVORE». A vederli da qui, gli iscritti al M5S sembrano soprattutto inascoltati e soli. Eppure questa solitudine sembrano accettarla, benché neghi nella sostanza quello che nella forma è il principio di base del Movimento – la democrazia diretta, la comunicazione fra base e vertici, cioè, “portavoce” –; e continuano a commentare, rivolgendosi a rappresentanti che non rispondono.
La democrazia parlamentare ci abitua a tollerare una misura di dissonanza cognitiva. Un elettore di Berlusconi della prima ora darà più peso, fra sé e sé, ai proclami della “rivoluzione liberale” che non agli anni di governo personalistico e inefficace che vi hanno fatto seguito. Un elettore del Pd preferirà dirsi di aver contribuito a far approvare le unioni civili piuttosto che a far eleggere Clemente Mastella. Qualcosa di simile vale per gli elettori del M5S, un movimento costruito sulla partecipazione in cui parlare coi rappresentanti è molto più difficile che in un partito tradizionale, dove basta andare in sezione; un banco di prova della democrazia diretta in cui proliferano le decisioni prese dall’alto, le scomuniche a mezzo blog, i “comitati di garanti” e i contratti privati con la Casaleggio Associati; un partito né di destra né di sinistra che predica a sinistra e razzola a destra, offrendo qualcosa per tutti i gusti (a volte con espliciti falsi storici, come nel caso di una famosa intervista anti-euro che Grillo ha modificato, negli archivi del suo blog, per sostenere il contrario di ciò che diceva in origine).
In effetti, il tratto ideologico dominante del M5S sembrerebbe proprio questa capacità altissima di tollerare la dissonanza – di vedere ciò che ci piace o ci rispecchia, ignorando o svalutando tutto ciò che sembra contraddirlo. George Orwell lo chiamava bispensiero. Nel 2013, a ridosso del primo grande successo elettorale del M5S, ho scritto un breve romanzo sulla democrazia diretta online, un’idea che di per sé mi ha sempre attirato moltissimo (La mentalità dell’alveare, Bompiani, ndr). In esso, cercavo di mostrare come l’applicazione di quell’idea rischiava di deformarla – nonostante le migliori intenzioni da cui traeva la spinta propulsiva, una rabbia giusta e un fondatissimo bisogno di rinnovamento. I meccanismi della discussione online privilegiano certi atteggiamenti rispetto ad altri (l’accusa alla difesa, la polemica all’analisi); il codice invisibile che ne istituisce le piattaforme (come Rousseau, il cui funzionamento è noto solo alla Casaleggio Associati) determina cosa vediamo e cosa possiamo fare. È a tutti gli effetti un codice legale: con la differenza che alla legge, pagandone le conseguenze, si può trasgredire, ma su Rousseau no, si può fare solo ciò che è previsto.
Tutto questo fa sì che la politica online – soggetta agli arbitri della viralità, regolata da algoritmi di ranking e regole di visibilità dal funzionamento opaco, conservata in archivi mutevoli e soggetti a revisione – tende a creare una camera dell’eco in cui la realtà fattuale, politica, sociale fa sempre più fatica a penetrare. In un comizio o un’assemblea il dissenso si vede; in una votazione cartacea le schede si contano. Nella politica online, no; ed esiste solo quello che viene ammesso nelle piattaforme, selezionato dai filtri, promosso da chiunque abbia le password; e ogni confutazione sarà viziata dall’ostilità della fonte, o comunque accomodabile con un piccolo scatto ulteriore di bispensiero. «Roma è una città impeccabile, curata, pulita, decorosa» ha scritto George Orwell sul blog del M5S, a fine agosto 2017. «]…] Una città civile che sta compiendo il miracolo di far dimenticare decenni di malgoverno, di ruberie e di intrallazzi». «La guerra è pace», ha scritto Beppe Grillo nel romanzo 1984, «la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza». O era viceversa?
M5S, parla l'ex grillino Artini: "La democrazia diretta di Grillo? Una truffa"Martedì, 21 marzo 2017
http://www.affaritaliani.it/politica/m5 ... 69804.html “Il caso Genova? Nemmeno Forza Italia aveva mai fatto una cosa del genere! Quanto a squallore, è superiore al ‘che fai, mi cacci?’ di Fini”. Massimo Artini, ex deputato del M5s, è stato appena nominato portavoce di Alternativa Libera, gruppo parlamentare che da domenica scorsa è anche una costituente. L’obiettivo è “riu nire sotto un’unica bandiera coloro che hanno creduto nel Movimento 5 Stelle e che hanno assistito al tradimento di tutti gli ideali che hanno portato alla sua nascita”.
Artini è molto severo sulla decisione di Beppe Grillo di annullare le “comuna rie” di Genova, togliendo il simbolo alla candidata che aveva vinto la sfida interna al M5s. “Fidatevi di me”, ha detto l’ex comico”. “Ma non puoi avere come cardine la democrazia diretta – dice Artini – se poi arriva uno che si sveglia la mattina e dice che ti devi fidare di lui e che il risultato è sbagliato. Noi di Alternativa Libera abbiamo votato tutto online, in maniera condivisa, dalle regole alle linee programmatiche, senza capetti. Sì, siamo pochi, ma le cose vanno strutturate fin dall’inizio. Altrimenti, che cos’è la democrazia? Se ognuno dice la sua e poi decide solo uno, non è democrazia. Mi ricorda ‘Lui è tornato’ (libro e film che raccontano un universo alternativo in cui Hitler non è morto ma è rimasto ibernato per 70 anni, ndr). A un certo punto Hitler spiega il concetto di democrazia: è il popolo che mi dà il potere e io faccio quel che mi pare”.
Artini pensa che Alternativa Libera debba fare alleanze, coinvolgere quante più liste civiche e associazioni possibile. “Da sola AL non va da nessuna parte. Dobbiamo essere un insieme di persone, ma senza personalismi. Prendo il mio caso: non è detto che io debba essere confermato in Parlamento, anzi: lavoro perché chi se lo merita si metta in gioco e consegua un risultato, perché è giusto che chi è più bravo vada avanti. Anche da noi ci sono state votazioni totalmente inaspettate, ma le abbiamo rispettate”. La vicenda di Genova, per Artini, è molto grave. “Nel M5s la gente sta ingoiando tante cose, in particolare i parlamentari, che o vogliono mantenere la seggiola o non ne possono più e aspettano solo che finisca l’anno di parlamento che resta. La situazione in Parlamento è imbarazzante; i deputati e senatori del M5s hanno bisogno di farsi riconfermare, altrimenti tornano nella vita a fare niente”. Per Artini è significativo che Beppe Grillo riesca a far passare qualsiasi decisione senza che nessuno protesti.
“In un sondaggio per la trasmissione ‘Matrix’ di qualche giorno fa c’era un dato indicativo: solo il 7 per cento del 29 per cento del M5s di oggi ha votato Grillo nel 2013. Il rimanente 93 per cento è costituito da un nuovo elettorato che non ha alcuna idea di cosa sia la partecipazione, è un elettorato bue. Se dice una cosa Grillo, va bene. Io penso invece che il M5s dovrebbe mettere in pratica le parole che usa, a partire dall’onestà”. Ma a Grillo e Casaleggio junior non interessano né la coerenza né i voti per governare davvero, “a loro bastano quelle 500 mila persone che fanno 40 clic a testa e producono 20 milioni di clic: servono alla Casaleggio per avere una buona statistica sulle loro azioni mediatiche”. Insomma, la democrazia diretta è una truffa? “Quella del M5s, sì, è una truffa. Noi invece abbiamo fatto qualcosa di chiaro e trasparente, che non ha dato problemi, e a costi irrisori. E mentre Rousseau, la piattaforma del M5s, è di proprietà di Casaleggio, la nostra, Sinapsi, è del gruppo di associazioni di cui fa parte anche Alternativa Libera. Io quindi non ho il potere fare quello che voglio”. Grillo, invece, sì.
M5S, Casaleggio: "Il nostro è il trend della democrazia diretta. Sceglierete online premier e ministri"Martina Castigliani
18 ottobre 2015
https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/1 ... ri/2137913 Quando ormai si pensava che il Movimento avrebbe preso tempo ancora, Gianroberto Casaleggio è salito sul palco di “Italia 5 Stelle” e ha fatto l’annuncio: la futura squadra di governo sarà scelta in rete. Così come il candidato presidente del Consiglio e pure come il programma “che sarà pluriennale perché basta governare con le emergenze”. Parole ovvie per gli attivisti, ma che se dette dal fondatore che, piaccia o no, siede nella stanza dei bottoni del Movimento, suonano un po’ più ufficiali del solito. I tempi? Sarà una procedura che partirà poco prima delle elezioni per non bruciare i volti. Gli esterni qualificati che possano fare il governo dei migliori? Lo pensano in tanti, ma non si può dire anche se è da sempre l’idea che ha in testa Casaleggio. Sarebbe il “governo di chi può fare meglio”, ma con un’incognita: la sua indipendenza di pensiero quando rispettare il programma è quasi l’unica regola imprescindibile. Dettagli in fondo che saranno definiti più avanti e comunque a dire l’ultima parola saranno gli iscritti.
Morale: niente corse per la poltrona, niente assemblee a porte chiuse o neppure consultazioni del direttorio. Il governo sarà scelto dal basso: “Noi siamo un trend”, ha detto Casaleggio dal palco, “che è il trend del futuro. Il trend della democrazia diretta e delle rinnovabili”. Torna a ronzare nelle orecchie l’idea della democrazia diretta del M5S. Per carità non se ne era mai andata, eppure gli ultimi voti online scarseggiano nella memoria. Gli iscritti non hanno votato, tanto per fare un esempio, per il nome da proporre al cda Rai e la candidatura di Carlo Freccero è nata dopo alcuni colloqui riservati. Sembrava, quello sì, che il trend fosse di fare più i mediatori politici e meno gli “informatici” in attesa di indicazioni dalla rete. Ora a rimettere la partecipazione degli iscritti al centro della scena è stato colui che fino a questo momento più volte è stato contestato per la gestione verticistica del voto online.
I 20mila militanti scarsi che sono arrivati all’Autodromo di Imola di partecipazione dal basso ne sanno qualcosa. Meno del previsto, sono però quelli che hanno affollato stand, gazebo e dibattiti pubblici per discutere dai palchetti e confrontarsi. “Ognuno di voi può cambiare le cose”, ha detto Luigi Di Maio che vive l’ansia di smarcarsi da una candidatura di chi corre favorito per vincere e poi è il primo a rischiare di cadere lungo il percorso. “Noi vogliamo che tutti possano partecipare alla cosa pubblica. E tutti devono poter dire la loro, anche quelli che non ci hanno votato”. Il vicepresidente della Camera ha poi ribadito alcune delle proposte dei 5 Stelle: il vincolo di mandato, il referendum propositivo, il recall, cioè la verifica periodica, da parte degli attivisti, del lavoro degli eletti. Insomma modi per chi sta in fondo alla catena di far valere le proprie idee su chi invece è in posizione di comando. “Siamo entrati nelle istituzioni per restituirvele”, ha chiuso prima di lasciare la parola a Grillo e Casaleggio.
Dal palco dell’Autodromo il clima è di quelli nuovi. Tutti a smentire potere e capacità, tutti a correre dietro nelle seconde righe. Ci si mette anche Grillo facendo sempre più l’artista e sempre meno il politico. “Sogno un Movimento senza il mio nome nel logo”. Anche se poi se ne va cantando “everybody needs somebody“, della serie i 5 Stelle di quella faccia hanno ancora bisogno.
Il Movimento che torna alla rete fa così una scelta: rispettare le regole costi quel che costi e non snaturarsi. Sceglie di restare ancorato ai principi degli inizi e si prende il rischio: che fare la politica a modo loro voglia dire non andare ancora al governo.
Il Movimento 5 Stelle e la democrazia8 gennaio 2018
Mauro Piras
http://www.leparoleelecose.it/?p=30581 I grillini amano sorprenderci sempre, in materia di democrazia rappresentativa. Li avevamo lasciati, all’inizio di questa legislatura, fermi nella loro idea che il voto di fiducia non fosse indispensabile alla nascita di un governo: basta trovare le maggioranze su ogni singolo provvedimento, dicevano, chi vuole appoggiarci ci voti quando vuole. E per cinque anni hanno denunciato come un crimine più o meno tutti i voti di fiducia. Ora invece, sorpresa, la fiducia diventa una sorta di totem. Che cosa è successo?
Il nuovo Codice etico e il Regolamento per la selezione dei candidati alle elezioni 2018 adottati dal Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni, e resi pubblici in questi giorni, contengono alcune novità. Per esempio, l’avviso di garanzia non è più un’infamia che impedisce la candidatura: saranno gli organi di garanzia a decidere caso per caso. Una ragionevole revisione dell’intransigenza originaria. Oppure, un altro punto, ingiustamente criticato: le candidature per i collegi uninominali non vengono decise dalla rete, ma dal Capo Politico del Movimento. Partitocrazia? Forse, ma tutto sommato meglio così: in fondo è sensato che le candidature siano definite politicamente, e non con elezioni online di dubbia legittimità democratica.
Invece non ha suscitato grandi critiche una regoletta che, a prima vista, appare incostituzionale: i parlamentari del Movimento 5 Stelle sono obbligati “a votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle” (Codice Etico, art. 3). Un’idea strabiliante. In questo modo si impone uno strettissimo vincolo di mandato ai parlamentari Cinque stelle, vincolo che però non viene imposto agli eletti dai loro elettori, ma dal governo stesso, rovesciando così il senso del voto di fiducia nella democrazia parlamentare. Vediamo meglio la cosa.
Togliere ai rappresentanti Cinque stelle la libertà di votare contro il proprio governo nel caso del voto di fiducia mina la democrazia rappresentativa da due punti di vista: viola la divisione dei poteri propria di qualsiasi costituzione rappresentativa, e viola il rapporto tra Parlamento e governo specifico della democrazia parlamentare.
1) La divisione dei poteri definisce una costituzione, secondo una venerabile formula della Dichiarazione dei diritti del 1789: un paese senza divisione dei poteri non ha costituzione, perché il potere si può accentrare in un solo uomo o in un solo organo, diventando così arbitrario. Questo principio definisce ogni regime politico fondato sui diritti individuali dei cittadini. Ovviamente, definisce i regimi politici in cui una assemblea di rappresentanti del popolo detiene il potere legislativo. La libertà di voto di questi rappresentanti garantisce la libertà del legislativo dall’esecutivo. Se i rappresentanti vengono assoggettati a un obbligo di voto esterno, vedono ridotta questa possibilità di limitare i poteri dell’esecutivo. Se tale obbligo viene dall’esecutivo, vengono direttamente assoggettati a esso. Ed è esattamente quanto accade con il nuovo regolamento M5S: se si formasse un governo a guida grillina, i parlamentari di questo movimento perderebbero la libertà di votare secondo la propria coscienza a ogni voto di fiducia, e verrebbero assoggettati direttamente alla volontà politica del governo. La separazione dei poteri, nei rapporti tra parlamentari Cinque stelle e governo, cadrebbe.
2) Ciò che vale per ogni democrazia rappresentativa fondata sulla divisione dei poteri viene declinato in modo specifico nella democrazia parlamentare. Qui, il governo è espressione della maggioranza parlamentare. Perciò, per avviare le sue attività, deve passare per il voto di fiducia. E deve dimostrare di avere la fiducia della sua maggioranza per tutta la sua durata. Se la perde, cade. In questo vincolo si esprime la divisione dei poteri: attraverso il voto di fiducia, il Parlamento controlla l’operato del governo. Se esso si discosta da quanto espresso dalla maggioranza che lo sostiene, questa ha lo strumento per farlo cadere. Tutto ciò presuppone però la libertà di voto dei parlamentari e l’assenza del vincolo di mandato: i singoli parlamentari devono poter giudicare liberamente il governo, senza essere vincolati da patti che altrimenti renderebbero il governo del tutto libero dal loro controllo. Il vincolo di mandato da parte degli elettori impedirebbe ai parlamentari di votare in coscienza. Se questo vincolo viene poi direttamente dal partito di governo, li assoggetta direttamente a questo eliminando la divisione dei poteri, come già detto: ma questo è più grave nelle democrazie parlamentari, dove il governo è emanazione della maggioranza parlamentare. Il voto di fiducia viene stravolto e rovesciato: invece di permettere il controllo del Parlamento sul governo, diventa uno strumento di controllo del governo sul Parlamento. È il mondo alla rovescia: non è più il governo a essere responsabile di fronte al Parlamento, ma questo di fronte al governo.
Tutto questo è gravissimo. E sorprende che, a parte qualche timida reazione politica, non sia stato oggetto di una grave reazione nell’opinione pubblica, soprattutto da parte di quanti l’anno scorso hanno difeso la Costituzione dalla “deriva autoritaria”. Certo, si può obbiettare che spesso, con accordi politici o, peggio, con pressioni politiche, i partiti vincolano i loro parlamentari nei voti di fiducia, e anche questo limita, di fatto, la divisione dei poteri e la libertà del Parlamento. La cosa è del tutto vera, ed è la ragione per cui il ricorso eccessivo ai voti di fiducia viene condannato unanimemente, e andrebbero trovati meccanismi istituzionali che lo scoraggino. Tuttavia, nessun partito aveva mai posto dei vincoli formali così pesanti. Esplicitare e formalizzare questi vincoli significa rendere inevitabile la dipendenza dei parlamentari dal governo, e esautorare il loro potere.
Come mai i grillini, nemici giurati del voto di fiducia, sono giunti a questo rovesciamento? Blindare così il voto di fiducia sempre significa infatti violare l’idea originaria secondo cui il governo deve procurarsi la maggioranza su ogni provvedimento. In realtà, la contraddizione è solo apparente. Il rifiuto del voto di fiducia nel 2013 e la sua “blindatura” oggi hanno la stessa radice: il rigetto della democrazia rappresentativa in nome di una confusa idea di democrazia diretta. Il principio di partenza è questo: il rappresentante politico deve parlare e agire in nome del popolo, questo deve esercitare direttamente la sua sovranità tramite la partecipazione ai meet-up, la discussione e il voto sulle piattaforme online e un controllo continuo dei rappresentati. Il M5S quindi vuole imporre il vincolo di mandato come chiave della democrazia, contro tutta la tradizione della democrazia rappresentativa. Il problema è che questo “innesto di elementi di democrazia diretta nella democrazia rappresentativa” diventa deleterio nel momento in cui dall’opposizione si passa al governo. Il vincolo di mandato che l’elettore dovrebbe imporre all’eletto viene infatti interpretato in questo modo curioso: l’elettore ha dato mandato al proprio partito di governare, quindi gli eletti in Parlamento devono chinare la testa di fronte al governo, che è una sorta di “espressione diretta” della “volontà popolare”. La sovranità si trasferisce magicamente dal popolo sovrano al governo. I grillini hanno chiamato Rousseau la loro piattaforma online, ma forse Jean-Jacques si sentirebbe preso in giro da questa fine ingloriosa della sua teoria: il “governo” che prende il posto del “sovrano”!
Alla radice di queste pericolose derive istituzionale sta proprio il senso dell’operazione grillina: contestare la democrazia rappresentativa senza proporre un coerente e sensato modello istituzionale alternativo; questo porta a innestare in modo disordinato elementi di democrazia diretta nelle istituzioni rappresentative, perdendo il controllo dei loro effetti. Perché in realtà il M5S non esprime una vera alternativa di regime politico, come a volte cerca di far credere, ma soltanto un male radicale della democrazia, non solo italiana, e cioè una profonda crisi di legittimità. Il suo successo elettorale si regge sulla fusione di diversi elementi: la denuncia della corruzione e della autoreferenzialità di una classe politica che, da decenni, non dà risposte alle esigenze reali dei cittadini; una rivendicazione di partecipazione attiva e di solidarietà sociale; la denuncia delle diseguaglianze e delle ingiustizie provocate dalla crisi economica e dal “turbocapitalismo”, denuncia fatta dalla prospettiva di un “sovranismo nazionale” in economia; la difesa dell’identità nazionale italiana e di posizioni conservatrici sul terreno dei diritti civili. Questo “mélange adultère de tout” non è una debolezza, come molti credono, ma una forza, perché l’ambiguità che fa muovere il M5S tra il sovranismo di destra e la democrazia partecipativa e sociale di sinistra coglie disagi e malumori da tutti i lati, li coagula e lo porta a prevalere sulle incertezze o i pragmatismi degli altri partiti. Soprattutto, questa miscela raccoglie il vero motore delle elezioni politiche recenti in tutti i paesi democratici avanzati: la crisi di legittimità dei sistemi politici tradizionali, dell’establishment.
I risultati di tutte le tornate elettorali recenti lo hanno mostrato chiaramente: l’elezione di Trump negli Stati Uniti; le elezioni in Olanda, dove i liberali hanno vinto con una percentuale di voti piuttosto bassa, in un quadro politico molto frammentato; le elezioni presidenziali in Francia, dove Macron ha vinto cavalcando una parte di quello spirito antisistema, e comunque il quadro politico si è frammentato in quattro parti, di cui due dichiaratamente “antisistema” e “sovraniste”; l’affermazione politica di Corbyn in Inghilterra, fondata su una sorta di nazionalismo di sinistra, e comunque, anche qui, su una rottura netta con l’establishment del suo partito; e infine, clamorosa, ma solo per chi non aveva saputo riconoscere queste forze sotterranee, la situazione in Germania dopo le elezioni, che ha prodotto un quadro di ingovernabilità a causa della crescita improvvisa delle forze antisistema, e della posizione del tutto “non istituzionale” assunta dai “liberali” di Lindner. In tutte le democrazie avanzate il tema che viene intonato è lo stesso: la sfiducia nei confronti delle classi politiche che hanno guidato la costruzione di questi regimi nel secondo dopoguerra, che hanno amministrato prima il difficile equilibrio tra economia di mercato e stato sociale, poi il passaggio traumatico alla competizione globale e a politiche economiche più o meno liberiste. Fino a quando queste scelte hanno prodotto risultati, quelle classi politiche hanno tenuto. Quando la competizione globale nel mercato del lavoro e la crisi economico-finanziaria hanno accresciuto le diseguaglianze e la precarietà dentro queste società, il loro credito è crollato. Ma attenzione: la crisi sociale attraversata da queste società è particolare. Si tratta di società ricche: è una classe media agiata che ha visto ridursi il proprio benessere e le proprie ricchezze, e che reagisce quindi con sentimenti di chiusura, di difesa delle proprie posizioni, rifiutando di vedere ingiustizie più grandi alle proprie porte. Rifiutando di vedere quanta ricchezza è stata creata, invece, in altre parti del mondo; rifiutando di riconoscere la nuova classe media che nasce dallo sviluppo dei paesi emergenti. Non è una forma di protesta che genera potenziali rivoluzionari, rivendicazioni di giustizia sociale o forme di solidarietà; è una forma di protesta che genera paura, insicurezza, chiusura, ostilità verso l’esterno. Ecco perché le forze politiche che se ne alimentano hanno contenuti ambigui: denuncia sociale e chiusura nazionalista, in una formula. Quanto più è ambiguo l’insieme, tanto più è forte la politica che se ne nutre.
Il M5S è la più forte di queste forze politiche dette troppo sbrigativamente “populiste”, perché le sue radici sono più profonde: la delegittimazione della politica, in Italia, non si regge solo su questa vicenda di “crisi della modernità postbellica”, ma anche su una inadeguatezza della classe politica e del sistema politico ben più antichi: l’Italia vivacchia, senza trovare una via delle riforme e dell’innovazione del sistema economico, da almeno venticinque anni, se non più; e le ingiustizie sociali generate dalla globalizzazione e dalla crisi rendono ancora più inaccettabili i “privilegi della casta”, molto più che in altri paesi, molto più di prima. Se a questo si aggiunge una tradizione di diffidenza dello Stato nei confronti dei cittadini, e di slealtà dei cittadini nei confronti dello Stato, che ha radici antiche, ecco che la forza propulsiva del M5S è la più semplice: la condanna della politica “ladrona”, la lotta contro il “Palazzo”, l’antipolitica. È questa la molla più potente, che sfugge a qualsiasi altra forza politica, dal momento che qualsiasi altra forza politica è stata parte di quel sistema contro cui il “popolo” si scaglia. Le cose più semplici e irrilevanti – la questione dei vitalizi, per esempio – diventano delle micce politiche potentissime, e nessuna soluzione ragionevole, nessun ragionamento che ne mostri la scarsa incidenza sui bilanci pubblici riescono a ridurne la portata, politica ed elettorale. Gli altri partiti si trovano quindi al traino.
La parola che sta dietro tutto questo è una: sfiducia. La crisi di legittimità della politica in Italia è una gigantesca crisi di sfiducia: dei cittadini nei confronti delle istituzioni, dei cittadini tra loro. I cervellotici meccanismi ideati dai grillini, che vogliono sottoporre tutto a controllo, in modo ossessivo, esprimono questa radicale crisi di sfiducia che continua ad attraversare tutta la società italiana, e che sfascia la politica. E così, come sempre, è su problemi relativi alla “fiducia” parlamentare che viene fuori la vera natura del M5S: essere il partito della sfiducia, il partito del controllo nevrotizzato su ogni azione politica, perché non c’è nessuna fiducia nel giudizio e nella libera coscienza degli altri. Questo estremismo traduce in politica una sensazione di cui facciamo troppo spesso l’esperienza nella vita sociale. Questa traduzione politica è la sua energia propulsiva. Il problema è che, se questa idea trova la strada verso la maggioranza di governo, il controllo ossessivo rischia di rovesciarsi, come abbiamo visto, nell’assenza di controllo, nell’arbitrio del potere che si autolegittima perché si considera “espressione diretta del Popolo”, “governo della virtù”. Il passo successivo rischia di essere il “terrorismo della pura intenzione”, secondo un’altra venerabile formula.
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Per una democrazia direttaRodolfo Sideri
27 Febbraio 2018
http://www.ilpensieroforte.it/cultura/4 ... ia-direttaSi usa sempre, come si ricordava la precedente settimana, derubricare l’idea di democrazia diretta come concepibile e utilizzabile solo in piccole comunità, ma, nello stesso tempo, è un mantra dei tempi moderni affermare con compiacimento (chissà perché) che il mondo ha ormai dimensioni ridotte e viviamo in un villaggio globale, per usare ancora l’espressione di McLuhan.
Se davvero le dimensioni del pianeta si sono ridotte, quelle di un singolo Stato nazionale, l’Italia ad esempio, devono essere diventate microscopiche, facendo tornare attuale e possibile una democrazia diretta, unico e forse ultimo rimedio alla progressiva perdita di democrazia che si sta rapidamente consumando in Europa (altrove è lecito dubitare ci sia mai stata). A determinare il rimpicciolimento del pianeta molto ha contribuito la comunicazione internettiana e in genere quella digitale. Si tratta allora di pensare come sfruttare un mezzo generalmente utilizzato per fini ludici e/o di progressivo svuotamento delle intelligenze, in modo che possa funzionare in vista di una democrazia diretta 2.0. Ad esempio, si potrebbe pensare di sottoporre tutte le leggi proposte, in un parlamento che certo va ripensato diversamente, al voto digitale.
Ogni cittadino, dotato di una chiave d’accesso equivalente alla tessera elettorale, potrebbe esprimere il proprio voto direttamente a favore o contro la legge proposta. Non si tratta del metodo grillino, tipico di una falsa democrazia, dove si tratta di dire sì o no a una delega o a un rappresentante, ma di esprimere direttamente la propria approvazione o riprovazione alla legge proposta. Compito del governo o dei partiti sarebbe quello di fornire una spiegazione chiara e comprensibile della legge, di spiegarne gli effetti positivi se la si ritiene utile o negativi se ci si oppone alla sua approvazione, in modo da consentire al cittadino di avere contezza di cosa è chiamato a decidere, ovviamente con un voto che rimane segreto.
Se il cittadino elettore non si informa è probabile che neanche voterà, in considerazione che nessuno voglia votare a caso procurando un danno alla collettività e quindi a se stesso, e se non voterà, lascerà che a decidere anche per lui saranno gli altri. Anche questo è lecito in democrazia, benché ci sia da aspettarsi che responsabilizzato così fortemente, il cittadino possa ritrovare una altrettanto forte motivazione alla politica e alla discussione politica che potrebbe, ma forse si esagera nelle speranze, persino sostituire, almeno nell’ordine gerarchico, quella di carattere calcistico. Si diceva come il parlamento andrebbe ripensato, anche per garantire una produzione legislativa, che in questo caso avrebbe carattere di mera proposta, contenuta nei numeri, in modo da rendere possibile un serio interesse da parte della popolazione, ma al contempo garantire anche un livello qualitativamente superiore alle leggi che stabiliscono le dimensioni degli ortaggi o il divieto di parlare al conducente.
Si tratta di definire meglio i caratteri di un’idea che potrebbe diventare programma di una forza politica che si proponga di salvare le sovranità nazionali e con esse la democrazia. Il dibattito è benvenuto.
M5s, la vera piattaforma di e-democracy non vedrà mai la luceLorenzo Andraghetti
2017/01/23
http://www.lettera43.it/it/articoli/pol ... uce/207946Il 17 gennaio 2017 è stata presentata alla Camera una nuova funzione della piattaforma Rousseau del Movimento 5 stelle, chiamata “sharing Rousseau”, ovvero una sorta di Google drive delle buone pratiche degli amministratori locali grillini che in questo modo possono condividerle tra loro prendendone spunto e adattandole di volta in volta al proprio caso. Quella di “sharing Rousseu” è l'ennesima presentazione di una nuova funzione della nota piattaforma del M5s che nel corso degli anni ha più volte cambiato nome, ma che non è mai diventata, nemmeno ora, quello che sarebbe dovuta divenire già dal 2012, ovvero uno strumento per scrivere (assieme agli iscritti) il programma elettorale pentastellato.
UNA CHIMERA DAL 2009. La grande novità politico-organizzativa del M5s delle origini, quello del 2009 per intenderci, aveva come fulcro una piattaforma (o un portale) online in gestione agli iscritti al blog (non alla Casaleggio srl) che avrebbe dovuto fungere da collettore tra tutte le realtà territoriali e con appositi spazi riservati per ogni Comune o Regione. Il principale obiettivo della piattaforma, dichiarato dallo stesso Grillo in numerosi post e video sul suo blog, era quello di creare un programma elettorale condiviso per le elezioni politiche nel momento in cui il M5s si fosse presentato agli elettori di tutta Italia.
BOICOTTAGGIO SISTEMATICO. L'annuncio fu dato ufficialmente a Milano nel 2009, durante la fondazione del Movimento al Teatro Smeraldo dicendo: «Ci sarà tempo per discuterlo (il programma, ndr) insieme in Rete, migliorarlo, cambiarlo nei prossimi mesi». E in seguito ripromesso perfino nel comunicato politico numero 34 dell'agosto 2010: «Abbiate pazienza, sta arrivando (il portale, ndr)». A oggi il programma non è mai stato discusso in Rete e questa funzione tecnica, nella piattaforma attuale, continua a non esserci. Ma c'è di più: nel corso degli anni chiunque abbia tentato di velocizzare la creazione o l'implementazione di uno strumento di e-democracy con o senza il consenso di Casaleggio è stato sempre boicottato.
Breve excursus storico: la piattaforma è stata la priorità per buona parte dei militanti del M5s per molti anni, e in un video girato a febbraio 2012, Casaleggio, in visita al Meetup di Roma, prometteva l'implementazione di Liquid Feedback per tutti gli iscritti al blog e la sua realizzazione entro la fine di quell'anno, che avrebbe permesso le votazioni online per i candidati alle Politiche.
PROMESSE DISATTESE. All'epoca già si notavano parecchi mal di pancia proprio a causa delle promesse che non venivano mantenute (sin dal 2010) ma, nonostante ciò, a fine 2012 non arrivò alcun portale (come promesso per due volte nel corso dell'anno) e il programma elettorale non fu mai discusso né ampliata la bozza del 2009. Arrivò solo la funzione di votazione online dei futuri candidati al parlamento. All'epoca del 2012, alcuni gruppi locali del M5s, stanchi di attendere la piattaforma, avevano già implementato l'uso di Liquid Feedback con buoni risultati. Inizialmente lo fecero i siciliani per tutta la regione in vista delle elezioni locali (2012), e poi la Lombardia (2013).
Ma è nel 2013 che la questione della piattaforma prese fuoco nei Meetup e a mezzo stampa. Colpa un'intervista di giugno del 2013 al Corriere, poco dopo l'ingresso in parlamento, in cui Casaleggio spiazzò tutti e iniziò a parlare non più di Liquid Feedback, «piattaforma» o «portale», ma di «applicazione» (da notare il terzo cambiamento semantico in due anni per definire la stessa cosa). In quella intervista si capiva che lo sviluppo dell'applicazione non avrebbe avuto come software Liquid Feedback, bensì un sistema ex novo progettato direttamente da un'azienda di Milano: Lex.
BARILLARI FECE UN ESPERIMENTO. Arrivati a settembre però, i senatori del M5s, privi di qualcosa che li aiutasse a prendere le decisioni politiche (su temi fuori dal programma elettorale) coinvolgendo gli iscritti, dichiararono aperta una crisi di rappresentanza proprio in mancanza della famigerata piattaforma. Ma andarono oltre: organizzarono autonomamente una presentazione a Palazzo Madama di un sistema di e-democracy, “Parlamento elettronico”, ideato dal Consigliere regionale del M5s Lazio, Davide Barillari, che lo aveva sviluppato nel corso di un anno (in accordo con Casaleggio) e che aveva appena dato il via a un esperimento su scala locale.
MA LA CASALEGGIO LO DELEGITTIMÒ. L'affronto era compiuto e la risposta di Casaleggio non si fece attendere: col solito post scriptum in coda a un intervento sul blog delegittimò ogni piattaforma non certificata dalla società di Milano, togliendo ogni speranza ai senatori pentastellati di veder nascere un vero sistema di democrazia diretta online. Ma allo stesso tempo promise, nello stesso post, un piattaforma certificata entro fine settembre 2013. La promessa, ancora una volta, non fu mantenuta.
Barillari riuscì comunque a presentare il suo progetto alla Camera, soltanto un anno dopo, su invito di due deputati pentastellati che organizzarono una conferenza per l'occasione. Soltanto a fine ottobre Casaleggio saltò fuori con un post rivelando al mondo che quello che attivisti, senatori e giornalisti chiedevano da tempo era già sotto i loro occhi e in fase di costruzione da ben due anni. Non era un portale, una piattaforma o un'applicazione, bensì un “sistema operativo" Ovvero l'ennesima presa in giro in stile: quello che abbiamo sempre promesso? C'è sempre stato! E la reazione della base finì sui giornali al primo incontro con gli eletti.
FINTE RIVOLUZIONI EPOCALI. Il sistema operativo annunciato a inizio ottobre vide realmente luce (ma come, non c'era già?) alla fine del mese e fu presentato sul blog come una rivoluzione epocale. La funzione che avrebbe permesso di definire e votare il programma in Rete, ovviamente, non c'era. In cosa consisteva il nuovo “Lex” pentastellato diventato improvvisamente sistema operativo? Permetteva ai parlamentari di caricare una legge e farla commentare agli iscritti. Una funzione che già da anni era disponibile, per esempio, su Facebook. E a demolire punto per punto ogni falla e inconsistenza del nuovo “gioellino” della Casaleggio srl fu proprio lui, Davide Barillari.
Passato l'ottobre di fuoco della piattaforma e ormai rassegnati, non vi furono più proteste da parte dei parlamentari fino alla fine del 2014, ma uno di loro cercò, dapprima collaborando, poi in modo autonomo, di dar vita a una vera piattaforma in mano agli attivisti (gestita dai parlamentari) dove si potesse votare anche su questioni che non dipendessero dalla volontà del blog.
LE RAGIONI DEI RITARDI? SOLO SCUSE. Massimo Artini, questo il suo nome, si adoperò per mesi alla ricerca di un accordo con Casaleggio, andando direttamente a Milano, fino a quando non si accorse anche lui che le motivazioni addotte per i ritardi sullo sviluppo del portale erano semplici scuse. Casaleggio non voleva perdere il controllo della piattaforma (sapendo che è lì il centro del potere) e non aveva intenzione di concedere ulteriori funzioni decisionali via web che avrebbero reso compiuta quella rivoluzione tanto sbandierata sin dal 2009.
Artini, invece che arrendersi, da informatico sviluppò un codice, sfruttando l'open source della piattaforma di Casaleggio (i dettagli sono complessi da spiegare), per poter far votare gli iscritti al blog su qualsiasi tema. Fece una prova con la sua commissione, la Difesa, ebbe alcuni problemi ma riuscì nell'intento di sfruttare il database degli iscritti al blog senza possederlo (è di Casaleggio) facendoli votare sul tema della “rappresentanza militare”. L'affronto fu punito. Pochi giorni dopo, con la scusa dei soldi, Artini fu espulso dal M5s.
TUTTO IL RESTO È PALLIATIVO. Morale: chi doveva sviluppare la piattaforma avrebbe potuto farlo già nel 2010. Chiunque abbia tentato di dare un vero strumento di e-democracy al M5s è stato sempre boicottato. A oggi le funzioni decisionali per la democrazia diretta non ci sono. Nemmeno il programma per le Europee 2014, con sistema operativo funzionante e molto tempo a disposizione, è stato creato e discusso in Rete. Ogni annuncio di nuove piattaforme, sistemi operativi e “Rousseau vari” non sono altri che palliativi affinché la democrazia online non si realizzi mai. L'unico obiettivo è che rimanga tutto sotto il controllo della Casaleggio Associati.
*Ex attivista e collaboratore parlamentare alla Camera per il Movimento 5 stelle