I CAMPI DI ACCOGLIENZA DEI RIFUGIATI CIVILI E POLITICI IN SVIZZERA
Antonio A. PIGA
http://www.lanternafil.it/Articolo%20Pi ... izzera.htmSu questo argomento e sulla storia postale che lo riguarda, poco è stato detto; con queste note spero di portare un ulteriore contributo alla sua conoscenza.
L’occasione mi viene fornita dall’acquisizione dell’intero carteggio di un rifugiato politico italiano, l’Avv. Gerolamo Isetta, noto esponente del socialismo savonese e amico fraterno di Sandro Pertini, che in quei campi ha trascorso oltre un anno della sua vita.
Prima però ritengo sia opportuno esporre, sia pure in modo succinto, una breve storia del ruolo che ebbe la Svizzera nei confronti dei rifugiati.
Per fare ciò mi avvarrò del Rapporto finale della Commissione indipendente d’esperti svizzera II Guerra mondiale del 1999, meglio conosciuto come Rapporto BERGIER.
CENNI STORICI
La Svizzera ha una antica tradizione d’asilo, anche se accompagnata da restrizioni; si operava comunque un distinguo tra profughi desiderabili e indesiderabili. Su questi ultimi si premeva perché cercassero un esilio definitivo altrove.
Nel corso degli anni Trenta, col crescere delle tensioni internazionali che la Società delle Nazioni risultava incapace a risolvere, essa si ritirò progressivamente dai suoi impegni internazionali sino a che, nel 1938, decise di tornare alla neutralità integrale.
Nella primavera del 1933 le autorità federali dettarono le norme, valide fino al 1944, sulla distinzione tra i profughi politici e gli altri. (Fig. 1 – paragrafo 4)
Tra i primi figurava chi correva un pericolo a causa della propria attività politica, facendo però delle distinzioni: i comunisti erano indesiderati; e, secondo le istruzioni del Dipartimento Federale di Giustizia e Polizia, si dovevano accogliere solamente “alti funzionari statali, dirigenti di partiti di sinistra e scrittori noti”.
Sulla base di questa rigida interpretazione, negli anni 1933-45, la Confederazione concesse asilo politico solamente a 644 persone.
Tutti gli altri profughi erano considerati, sotto il profilo giuridico, semplicemente degli stranieri; essi sottostavano alle autorità di polizia dei singoli cantoni, da cui dipendeva la concessione dei permessi, che potevano essere limitati a pochi mesi, oppure permessi di dimora e domicilio.
Con lo scoppio, nel 1939, della seconda guerra mondiale, la politica di asilo elvetica mutò radicalmente.
Il 17 ottobre 1939 il Consiglio Federale emanò un decreto che imponeva ai rifugiati il divieto di lavorare, svolgere attività politica e comportarsi in modo contrario alla neutralità elvetica, pena l’espulsione.
A partire dal 1940 venne deciso il loro internamento in campi di lavoro amministrati da personale civile proveniente dalle varie Associazioni umanitarie che si occupavano dell’assistenza ai profughi ed ai rifugiati.
A partire dalla primavera del 1942, aumentando notevolmente il flusso di profughi che cercavano rifugio in Svizzera, la gestione dei campi di accoglienza passò sotto il controllo dell’esercito.
Da un lato l’istituzione dei campi di lavoro consentiva di impiegare i profughi in lavori utili alla collettività, dall’altro serviva come mezzo per tenere sotto controllo una notevole massa di persone che altrimenti sarebbero state difficilmente gestibili.
Nel 1947 le autorità federali affermarono che durante la guerra la Svizzera aveva accolto complessivamente 300.000 fra profughi e rifugiati.
Bisogna ancora dire che, a partire dall’estate del 1942, i rifugiati, fossero essi civili o politici, una volta accolti dovevano consegnare ogni avere in loro possesso, fosse esso costituito da denaro liquido o da oggetti preziosi. (Fig. 8)
Questa imposizione era priva di una base legale formale; solo nel 1943 il Consiglio federale decise che gli averi sottratti ai rifugiati dovevano essere presi in carico e amministrati dalla Banca Popolare Svizzera.
A tale decisione contribuirono considerazioni organizzative e giuridiche, e anche i notevoli problemi che erano sorti nei campi di smistamento con la custodia di tali averi da parte dell’esercito.
Da questi depositi il rifugiato non percepiva alcun interesse; inoltre venivano detratte le spese di mantenimento ed era nei poteri della Divisione di Polizia vendere, in caso di bisogno, i beni requisiti, senza chiedere l’autorizzazione dei singoli proprietari.
La Divisione di Polizia decideva addirittura sulla legittimità, per i proprietari, di usare quei soldi per l’acquisto di oggetti di uso quotidiano, come scarpe, vestiario, medicine ecc..
Nella domanda per poter effettuare un prelievo bisognava infatti specificare per cosa i soldi venivano usati e doveva essere indirizzata al competente Comando di Polizia che aveva potere di concedere o meno l’autorizzazione.
Al mantenimento dei rifugiati che non possedevano averi propri provvedevano le varie Associazioni umanitarie.
Le principali Associazioni, assieme ad alcune altre minori, erano: Unione svizzera dei comitati ebraici d’assistenza ai rifugiati (VSJF), Comitato svizzero di soccorso per i rifugiati evangelici, Opera unitaria cattolica Caritas, Comitato svizzero di soccorso operaio (CSSO) – Questa associazione, emanazione del partito socialista svizzero, venne fondata dall’Onorevole Canevascini, Consigliere di Stato del Ticino.
Alla fine della guerra, la Banca Popolare Svizzera, che aveva potuto amministrare circa 7.000 conti correnti e 2.700 depositi, dichiarò una perdita complessiva di 50.000 franchi.
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CAMPI DI RACCOLTA – QUARANTENA – SMISTAMENTO - DI LAVORO
Una volta accolti, i rifugiati venivano ospitati dapprima presso campi di raccolta situati generalmente nei pressi del confine.
Successivamente venivano inviati nei campi di quarantena, dove soggiornavano per un periodo di circa tre settimane prima di essere destinati ai campi di smistamento.
Questi campi erano sotto il controllo dei militari; solo successivamente, quando venivano destinati ai campi di lavoro o ai Centri gestiti dalle Associazioni umanitarie, venivano consegnati all’Amministrazione Civile.
Nei campi di raccolta, quarantena e smistamento le condizioni di vita erano precarie e spesso non rispondevano nemmeno agli standard minimi: locali privi di riscaldamento, installazioni sanitarie insufficienti, cibo scarso.
Inoltre gli internati erano sottoposti ad una disciplina ferrea: non era permesso scrivere in ebraico o spedire lettere all’estero, ma la cosa più pesante da sopportare per le famiglie era lo smembramento del nucleo famigliare.
Uomini e donne erano inviati in campi separati e i bambini dati in affidamento.
La decisione di dare in affidamento i bambini a famiglie “normali” era ritenuta, dalle Autorità, più proficua per lo sviluppo dei bambini stessi, che non la vita con la madre nei centri per rifugiati.
Le seguenti cifre riferite alla primavera 1944 danno un’idea del fenomeno rifugiati civili: 9.300 dei circa 25.000 profughi civili vivevano in campi e centri collettivi – 3.000 aspettavano nei campi di smistamento – 5.300 abitavano presso parenti e in pensioni – 1.600 uomini e donne lavoravano in agricoltura o presso famiglie – 2.500 bambini risultavano ospiti di famiglie affidatarie.
I rifugiati politici seguivano lo stesso iter burocratico dei rifugiati civili; essi tendevano però a formare una casta separata, alimentando fra di loro, sia col dialogo diretto sia attraverso la corrispondenza, l’ideologia per cui avevano combattuto e subito l’esilio.
Anche per un rifugiato politico esisteva la possibilità di vivere fuori dai campi e dai centri in un regime di semi libertà. Ciò poteva avvenire solo dopo un certo periodo di tempo passato nei campi e a seguito di un lungo iter burocratico che prevedeva oltre alle garanzie economiche anche l’interessamento di un cittadino svizzero che si facesse garante per lui; inoltre la comunità presso cui intendeva risiedere doveva dare parere favorevole così come era necessario il parere favorevole del Cantone in cui era la località della futura residenza.
Ottenuta questa possibilità, il rifugiato era libero di muoversi nell’ambito territoriale su cui aveva giurisdizione la Polizia locale; per qualsiasi spostamento al di fuori di quel territorio anche per un solo giorno occorreva l’autorizzazione, pena la perdita del diritto così faticosamente ottenuto.
Dall’esame della copiosa corrispondenza contenuta nel carteggio dell’Avv. Gerolamo Isetta, che mi ha dato lo spunto per la stesura di queste note, ho potuto individuare 28 campi di vario utilizzo in cui hanno soggiornato rifugiati politici italiani; presumibilmente ne esiteranno altri di cui però non ho conoscenza.
A parte ne presento un elenco.
Sono in grado di documentare l’esistenza di 22 campi attraverso una documentazione postale.
In alcuni campi la censura postale è documentata da bolli di censura apposti sulla corrispondenza; (Fig. 4 e Fig. 5) è presumibile che anche nei campi dove la censura non era evidenziata con un bollo essa esistesse comunque.
SUSSIDI e AIUTI
Una attenta lettura del documento in Fig. 1 ci dice che i rifugiati politici ricevevano dalle Associazioni umanitarie (in questo caso si tratta di una associazione di espressione socialista) un sussidio mensile che cessava nel momento in cui venivano avviati ai campi di lavoro.
Questo sussidio era di 15 Franchi al mese, come si deduce dal documento riprodotto in Figura 3.
Ci dice inoltre che ogni rifugiato politico, per poter accedere a questo sussidio, doveva compilare una scheda di cui presento un prototipo alla Fig. 2
Si intuisce anche quanto queste Associazioni fossero di aiuto per i rifugiati nell’instradare e sostenere le varie pratiche che dovevano presentare onde ottenere condizioni di vita più confacenti alle loro esigenze.
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