Sovranità popolare, scontro fra Stato moderno e Stato federale
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di ENZO TRENTIN
L’indipendentismo odierno non può che basare le proprie rivendicazioni sul potere del popolo che per rivendicare i propri diritti, deve avere il potere di privare le istituzioni di determinate funzioni o addirittura di cambiare le istituzioni stesse, poiché i diritti dei cittadini equivalgono a quelli che noi oggi diremmo indisponibili, inalienabili, come riteniamo sia la sovranità. Infatti, se attraverso le elezioni i cittadini delegano la propria sovranità ai “rappresentanti” sia pure eletti, ma pur sempre dei semplici delegati; che sovrani sarebbero?
Le ragioni dell’indipendentismo dall’Italia risiedono nel fatto che il “contratto” tra lo Stato italiano ed i suoi cittadini, non è mai stato stipulato, e ancor quando lo fosse stato, esso non è mai stato rispettato dalle istituzioni e dai loro reggitori. Quindi gli indipendentisti non hanno necessità di eleggere rappresentanti presso le istituzioni dello Stato Italiano. Si veda il “giochino” dei Consiglieri alla Regione Veneto: Tesserin e Toniolo, che all’apparire della della proposta di legge 342/2013 per un referendum consultivo per l’indipendenza, ne hanno immediatamente proposto uno di analogo, ma per l’autonomia. Che Carlo Alberto Tesserin, ora rappresentante del Ncd, abbia recentemente dichiarato: «Al di là di quelle che possono essere le posizioni di ognuno, è giusto che venga garantita l’espressione della volontà da parte dei veneti su questo importante argomento, perché questa è l’essenza della democrazia» nulla toglie alla manovre partitocratiche. Con queste modalità non si approderà a nulla d’innovativo. Gli indipendentisti hanno, al contrario, la necessità imprescindibile di trovare amici e alleati all’estero.
Ci sono un’infinità di popoli che aspirano ad affrancarsi dagli Stati ottocenteschi che li inglobano, come dall’attuale Unione europea. È lì che deve operare l’indipendentismo più avveduto ed avanzato. Tuttavia anche nella ricerca degli amici esterni, gli indipendentisti dal “Bel Paese”, debbono dotarsi di un progetto istituzionale spendibile. Infatti, a chi interesserebbe uscire dall’UERSS (Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche o UE) per entrare – per esempio - in un nuovo paese retto da un sistema comunista?
L’idea che «Il popolo non è un qualsiasi agglomerato di uomini riuniti in un modo qualsiasi, ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza di interessi.» è di Marco Tullio Cicerone (???) che visse decenni prima della nascita di Cristo. Più recentemente Edward N. Luttwak, un economista, politologo e saggista rumeno naturalizzato statunitense, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera; ha scritto: «Questa concezione romana è all’origine del contrattualismo per il quale lo Stato è il risultato di un patto, di un “contratto” tra gli individui. Quindi l’unità e i poteri dello Stato non precedono, ma conseguono da questo accordo stipulato tra i cittadini. Lo Stato inteso come prodotto di un “contratto” è la giustificazione teorica dello stato moderno; essa è strettamente legata al concetto di sovranità e più precisamente di sovranità popolare, ossia l’emanazione umana del Potere.» Per comprendere come si sia arrivati, nel tempo, al consolidamento di queste idee, citeremo qui solo alcuni personaggi autorevoli.
La teoria del contratto sociale e successivamente politico trova le sue origini nella disputa storica fra sostenitori del più insigne dei maremmani del Medioevo, papa Gregorio VII (Gregoriani), e quelli dell’Imperatore (Antigregoriani), verso l’anno 1075. I Gregoriani sostengono che l’imperatore Enrico IV non governa i sudditi per diritto divino illimitato, ma per un contratto tacito esistente fra lui e gli individui che si impegna a governare, rispettando alcuni principi e regole morali e religiose, violando le quali rimane privo del suo diritto davanti al popolo. Gregorio VII, con un piccolo gruppo di uomini colti ed onesti a lui fedeli, si pone contro lo stato di cose consolidato nei secoli per chiarire alle autorità politiche i limiti delle loro attribuzioni. Gli effetti della sua “Riforma” furono di tale importanza che andarono oltre quello che gli stessi protagonisti potevano immaginare. Essi avviarono la formazione di una nuova società europea, lo sviluppo di forze sociali popolari (i Comuni) e la fioritura di una spiritualità diversa rispetto al passato.
Per S. Tommaso d’Aquino il “diritto” è «la proporzione tra il profitto che il mio atto produce ad un altro e la prestazione che questi mi deve in cambio», (definizione di “contratto”). Per lui la legge umana ha come fondamento sia la legge divina sia quella naturale. «…il re non è il tiranno, ma colui al quale il popolo ha delegato la propria libertà e sovranità in nome della pace, dell’unità e del buon governo (ovvero il bene comune).» San Tommaso è considerato il primo ad enunciare il principio di sussidiarietà. Questi concetti sono propri del “contratto politico o di federazione”, e saranno introdotti nei secoli successivi nella teoria dello Stato contrattuale o federale dai grandi teorici del federalismo.
Marsilio da Padova nel Defensor Pacis, (“difensore della pace”. La sua opera più conosciuta), scritto nel 1324, dove tratta, fra l’altro, dell’origine della legge, sostiene che è la volontà dei cittadini che attribuisce al Governo, Pars Principans, il potere di comandare su tutte le altre parti, potere che sempre, e comunque, è un potere delegato, esercitato in nome della volontà popolare. La conseguenza di questo principio era che l’autorità politica non discendeva da Dio o dal papa, ma dal popolo, inteso come sanior et melior pars.
Thomas Hobbes, nel suo trattato più conosciuto, il Leviatano, afferma che nello stato di natura gli uomini nascono nell’eguaglianza, ma non possono restarci, dunque è la ricerca dell’eguaglianza che provoca e mantiene lo stato di guerra fra gli uomini. Dall’ineguaglianza – scrive – procede la diffidenza e dalla diffidenza la guerra. Considera lo Stato come il risultato di un “contratto” fra il sovrano ed i cittadini, inteso a salvaguardare la pace ed a conservare la vita degli individui.
Alexis de Tocqueville scrisse: «Se la democrazia è solo una vuota affermazione di uguaglianza e non funziona perché esclude la viva partecipazione, il suo contravveleno è il federalismo come l’ha conosciuto in America. [...] Eliminando l’accentramento all’interno della struttura dello stato, il Federalismo moltiplica le occasioni di partecipazione, mentre il Centralismo tende a soffocarle.» È nelle istituzioni comunali che si impara la Democrazia.
Giuseppe Ferrari, grande amico di Pierre Joseph Proudhon con cui condivideva l’idea del carattere contrattuale dello Stato, aveva la visione politica di un’Italia costituita come Federazione dei suoi popoli. Per lui l’opinione pubblica doveva essere preparata alla Rivoluzione Federalista (che doveva avvenire spontaneamente) per la nascita di un partito di stampo popolare, democratico e repubblicano. La questione sociale era infatti per Ferrari inscindibile da quella istituzionale. Il futuro stato federale italiano sarebbe stato gestito da una assemblea democraticamente eletta e da tante assemblee regionali.
Mentre in Europa imperversa la seconda guerra mondiale, Adriano Olivetti si rifugia in Svizzera dove completa la stesura del libro: L’ordine politico delle comunità. Nella sua critica ai partiti ed al parlamentarismo integrale, partendo dagli studi di Ferdinand Tönnies derivava l’idea di comunità come spazio naturale dell’uomo. I termini comunità e società indicano per Olivetti due modi diversi di concepire le associazioni di individui e generano due differenti tipi di rapporti sociali: umani e virtuali. Così supera l’idea della contrapposizione fra comunità e società di Tönnies e pone la prima come la nuova misura dell’ordine politico fondata sul federalismo, punto di convergenza fra la persona e lo stato e fra la necessità della dimensione limitata della comunità in rapporto alla grande babele della società moderna e delle sue metropoli. Questo assunto gli serve a dimostrare che non ci può essere democrazia senza quella base di esperienza umana ed affettiva dei rapporti interpersonali che è possibile alimentare e conservare solo a livello di una comunità naturale, federale e di dimensioni limitate.
Il pensiero di Gianfranco Miglio, grande scienziato della politica e del federalismo, è vastissimo ed articolato. Crediamo che si possa riassumere in queste poche, profetiche parole circa le radici del federalismo: «…la sua vittoria è la vittoria del “contratto” sul “patto politico”, nell’Europa statalista. […] Con il consenso della gente si può fare di tutto: cambiare il governo, sostituire la bandiera, unirsi a un altro paese, formarne uno nuovo».
Concludendo, affinché il Contratto politico o di Federazione sia vantaggioso ed utile per tutti, occorre che il cittadino, entrando nella associazione tra sé e lo Stato:
abbia tanto da ricevere dallo Stato, quanto ad esso sacrifica;
conservi tutta la propria libertà, sovranità e iniziativa, meno ciò che è la parte relativa all’oggetto speciale e limitato per il quale il contratto è stipulato e per la quale si chiede la garanzia allo Stato;
3. che la quantità di “sovranità” che gli aventi diritto al voto cedono ai loro “rappresentanti” sia sempre inferiore a quella che riservano per sé.
Così regolato ed inteso, il “contratto politico” è una federazione. La grande battaglia politica (che potrebbe decidere le sorti della nostra specie) si svolgerà tra due diverse concezioni della forma di Stato e di governo:
Lo Stato moderno, unitario, indivisibile ed accentrato, in cui “sovrano” è lo Stato;
Lo Stato federale o contrattuale in cui “sovrano” è il Cittadino, la persona.