Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:52 pm

Preistoria e storia del diritto, fonti varie
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Indice:

Diritto animale
Diritto preistorico
Diritto mesopotamico
Diritto biblico ed ebraico
Diritto egiziano
Diritto venetico
Diritto celtico
Diritto etrusco
Diritto greco
Diritto germanico
Diritto slavo
Duiritto romano
Diritto medioevale
Diritto veneto e veneziano
Diritto cinese
Diritto indiano
Diritto giapponese
Diritto islamico
Diritto africano
Diritto nativi australiani
Diritto nativi americani
Giubileo
Diritto delle genti
Diritti Umani Universali
Diritti che non esistono
Criminali che non rispettano i diritti umani universali


Lessico etimologie

Diritto, giustizia, legge

https://it.wikipedia.org/wiki/Diritto
https://it.wikipedia.org/wiki/Giustizia

http://www.etimo.it/?term=diritto
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http://www.etimo.it/?term=giustizia
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http://www.etimo.it/?term=gius
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... is-441.jpg

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... -544-1.jpg



http://www.etimo.it/?term=legge
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Ligar, rancurar (raccogliere, tor sù), leje/legge/lex, lexar
viewtopic.php?f=44&t=1707

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ex-454.jpg
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:54 pm

Il diritto presso gli animali

Anche gli animali hanno il senso del diritto, del bene e del male, delle leggi naturali e universali.

Etologia
https://it.wikipedia.org/wiki/Etologia
Il termine etologia (dal greco ethos e logos che significano rispettivamente «carattere o costume» e «studio») indica la moderna disciplina scientifica che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale. Il termine traduce nella maggior parte delle lingue europee l'originaria espressione tedesca vergleichende Verhaltensforschung («ricerca comparata sul comportamento»), coniata da Konrad Lorenz, uno dei fondatori della disciplina.

Territorio
https://it.wikipedia.org/wiki/Territorio_(biologia)
In etologia, sociobiologia ed ecologia comportamentale, con il termine territorio si indica una qualsiasi area sociografica che un animale di una particolare specie difende costantemente dai cospecifici (e, occasionalmente, dagli individui di altre specie). Gli animali che difendono propri territori sono noti come animali territoriali.



Per costoro gli animali non avrebbero il senso del diritto o delle leggi di natura e universali che governano la vita di tutti gli esseri viventi o creature e dell'Universo o Creazione

MONTESQUIEU, DELLE LEGGI DELLA NATURA
http://www.filosofico.net/Antologia_fil ... ieu_02.htm

Innanzi a tutte le leggi su riferite vengono quelle della natura, così dette perché derivano unicamente dalla costituzione del nostro essere. Per conoscerle bene, bisogna considerare l'uomo prima che fosse istituita la società. Le leggi della natura sarebbero quelle che egli riceverebbe in un simile stato. La legge che imprimendo in noi l'idea di un Creatore ci porta verso di lui, è la prima delle leggi naturali per la sua importanza, ma non nell'ordine di queste leggi. L'uomo allo stato di natura avrebbe la facoltà di conoscere piuttosto che conoscenza. È ovvio che le sue prime idee non sarebbero speculative: egli cercherebbe di conservare la propria esistenza prima d'indagarne l'origine. Un uomo simile non sentirebbe dapprima che la sua debolezza; la sua timidità sarebbe estrema; se ci fosse bisogno di ricorrere all'esperienza, ricordiamo che si sono trovati, nei boschi, uomini selvaggi: tutto li fa tremare, tutto li fa fuggire. In queste condizioni ciascuno si sente in stato d'inferiorità, o appena appena uguale agli altri. Nessuno cercherebbe dunque di attaccare, e la pace sarebbe la prima legge naturale. Quello che ritiene Hobbes, e cioè che gli uomini proverebbero sin dal principio il desiderio di sottomettersi a vicenda, non è ragionevole. L'idea dell'impero e del dominio è talmente complessa e dipende da tante altre idee che non sarebbe certo quella che viene in mente per prima. "Perché mai gli uomini" si domanda Hobbes "se non sono naturalmente in stato di guerra, vanno sempre armati, e perché hanno delle chiavi per chiudere le loro case?" Ma non si vede che qui si attribuisce agli uomini prima dell'istituzione delle società, ciò che accade soltanto dopo detta istituzione, la quale può offrire i motivi per attaccare e per difendersi. Al sentimento della sua debolezza l'uomo unirebbe quello dei suoi bisogni. E così un'altra legge naturale sarebbe quella che lo spingerebbe a procacciarsi il cibo. Ho detto che la paura porterebbe gli uomini a fuggirsi, ma i segni della paura reciproca li convincerebbero in breve ad avvicinarsi. A ciò sarebbero portati, del resto, dal piacere che ogni animale trae dall'incontro con un animale della stessa specie. Di più, il fascino che si ispirano i due sessi con le loro differenze, aumenterebbe questo piacere, e la preghiera naturale che si rivolgono sempre l'un l'altro sarebbe una terza legge. Oltre al sentimento, che posseggono sin dal principio, gli uomini giungono ad avere delle cognizioni; ed ecco un secondo legame che gli altri animali non conoscono. Hanno dunque un nuovo motivo di unirsi, e il desiderio di vivere in società è una quarta legge naturale.

(Montesquieu, “Lo spirito delle leggi”, I, cap. 2)


Le Società degli uomini e le Società degli animali
https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q= ... GYgiAgLYGA

La capacità dell’uomo di agire capendo gli consente di influire sulla società in cui vive per modificarla secondo progetti coscienti. Questo punto distingue la società degli uomini da quelle degli animali, anche dalle più evolute. È possibile che le società degli animali, che ai nostri occhi appaiono come pietrificate, siano anch’esse soggette al cambiamento, magari nel corso dei millenni. Ciò, tuttavia, non è per effetto degli sforzi coscienti dei loro membri, ma in conseguenza della pressione di fattori ambientali esterni che, modificandosi, influiscono sugli organismi viventi e sui loro rapporti sociali. Per l’esigenza della continuità genetica (che sembra essere tra le leggi naturali del regno animale quella fondamentale), essi sono indotti ad adattarsi alle nuove situazioni. Ma tutte queste mutazioni adattative sono determinate dalla necessità, non dalla libertà. Anche sull’uomo e sulle sue relazioni sociali influisce la necessità di rispondere alle esigenze biologiche elementari della specie umana (la riproduzione, la nutrizione ecc.). L’uomo però, e solo l’uomo, dispone della capacità di dare un senso cosciente alle sue azioni, di usare la sua libertà per provvedere al soddisfacimento delle sue necessità vitali nel modo che considera migliore; per porsi scopi diversi da quelli solo biologici (cioè scopi culturali, morali, politici); per controllare i fattori della natura che possono influire sulla sua esistenza (si pensi agli studi per il mutamento del clima, alle opere di bonifica di estesi territori, alla progettazione di coltivazioni intensive ecc., tutte cose oggi studiate dall’ecologia o scienza dell’ambiente), per modificare artificialmente addirittura i caratteri degli organismi viventi, secondo i tentativi della cosiddetta ingegneria genetica. L’uomo e la sua società possono insomma coscientemente aprirsi al cambiamento, possono essere disposti a mettersi in discussione, possono guardare al di fuori di se stessi, possono in qualche misura sottrarsi alla pressione bruta delle circostanze ambientali. Al contrario, le società degli animali sono portate a ripetersi e il cambiamento può essere, eventualmente, solo conseguenza di circostanze esterne. Per le ragioni ora indicate la società degli uomini può dirsi una società (potenzialmente) aperta; la società degli animali è invece una società chiusa. La libertà e, rispettivamente, l’assenza di libertà sono ciò che differenzia i due tipi di società


Le ragioni del diritto, Il Mulino, Bologna 2003F. Viola, G. Zaccaria
Alessandra Callegari
http://www.juragentium.org/books/it/viola.htm

Gli Autori di questo manuale, nel tentativo di sviluppare, sul piano del diritto, gli orientamenti dell'ermeneutica filosofica, propongono una prospettiva filosofico-giuridica che tende a delegittimare la pretesa di autoconsistenza del diritto positivo, espressione del tradizionale approccio giuspositivistico.

L'ermeneutica giuridica, infatti, si pone in posizione nettamente critica rispetto alla tipica prospettiva che considera l'interpretazione quale mera attività dichiarativo-conoscitiva di enunciati normativi ben definiti e dal significato univoco e precostituito. Essa considera, piuttosto, il senso specifico dell'agire umano quale spazio preliminare di apertura di significato e di esperienza vitale che precede i testi giuridici, e contribuisce a conferire loro un peculiare significato ancor prima di ogni concreto esercizio interpretativo. La comprensione, pertanto, non è mai un reperimento di qualcosa di già dato, ma rappresenta un costante e incessante rinvio ad altro da sé. In dettaglio, si rileva che per l'ermeneutica del diritto, ancor prima della concretizzazione si è consapevoli solo che i testi giuridici significano qualcosa, e che in questo risiede la loro validità.

Pertanto, secondo tale prospettiva, non sono i testi ad avere un senso, ma è il senso stesso che si costruisce e si realizza nel processo del comprendere e che è compito dell'interprete estrarlo da uno o più testi. In particolare, secondo tale orientamento, l'interprete accetta un "punto di vista interno", nel senso che, lungi dal porsi quale osservatore distaccato ed esterno rispetto ai processi di produzione giuridica, partecipa, invece, dall'interno della situazione in cui è chiamato ad adempiere il proprio ruolo, facendone propri i presupposti contestuali. L'interpretazione, quindi, opera dall'interno dei testi e delle interpretazioni che questi ultimi ricevono o che hanno ricevuto (pp. 241-242).

Il diritto viene paragonato dagli Autori ad un brano musicale. Infatti, così come una sinfonia si crea perché vi è un'orchestra, uno spartito, dell'aria da far vibrare, delle orecchie che ascoltano ... allo stesso modo, il diritto si identifica, all'interno della storia del pensiero giuridico, attraverso vari elementi essenziali: le regole, le sanzioni, le istituzioni, le procedure e le azioni (p. 14). In particolare, Viola e Zaccaria, tendono a confrontare due peculiari approcci al diritto: uno giuridico e uno filosofico. Mentre il primo viene analizzato dalla scienza giuridica che tende a studiare in via conoscitiva il concetto stesso di diritto e i suoi possibili contenuti, il secondo è invece proposto dalla filosofia del diritto. Quest'ultimo orientamento analizza ciò che l'uomo comune (common man) pensa rappresenti il diritto, in quanto questa precomprensione (che è chiamata da alcuni pregiudizio o preconcetto) contribuisce a dar forma a ciò che il diritto rappresenta. Pertanto, secondo quest'ultima prospettiva, la filosofia del diritto funge da critica razionale della precomprensione degli utenti del diritto, intesi quali operatori giuridici in generale (ovvero i cittadini, gli avvocati, i giudici, i pubblici funzionari, i produttori del diritto, i politici e gli stessi studenti di diritto).

In particolare, è opportuno rilevare che la prospettiva teorico-giuridica evidenziata dagli autori ruota attorno all'idea generale che qualsiasi opera umana presenta delle proprie ragioni, e che queste riguardano il suo senso. Pertanto, anche lo stesso diritto ha le sue ragioni, non sempre nobili e accettabili, ma comunque sempre degne di essere prese in considerazione. L'uomo ha bisogno del diritto, perché appartiene alla sua storia e al suo modo di vivere. Gli animali non usano il diritto, vivono ordinatamente in gruppo senza bisogno di regole giuridiche. Ma le società degli uomini, senza diritto, non potrebbero sussistere. Anche se nella storia umana non sempre è stato possibile distinguere il diritto dalle altre sfere della vita pratica (quale il costume, la morale, la religione, la politica o l'economia) la giuridicità è sempre stata indispensabile alla vita sociale. Questo perché il diritto svolge delle funzioni che sono essenziali alla realizzazione della stessa vita umana.

Le funzioni del diritto vanno ricercate nell'esigenza di dare ordine e sicurezza alla vita sociale, sottoponendo l'esercizio del potere pubblico e privato a diversi vincoli. Quest'istanza di ordinamento e contenimento può essere compiuta in modi diversi, alcuni dei quali possono contravvenire alla dignità delle persone e delle loro legittime aspettative. Pertanto, l'esperienza giuridica rappresenta il frutto di una incessante autocorrezione di se stessa, affinché il diritto sia come deve essere (p. 7). Ma tutto questo richiede la conoscenza dei modi dell'agire giuridico e i suoi fini. Modi e finalità analizzati dettagliatamente in questo libro, che tende a fornire un approccio critico al diritto, inteso quale prassi interpretativa piuttosto che come un "castello" di norme e di concetti.



Legge naturale

La legge fisica (o legge della Natura)
https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_fisica
La legge fisica (o legge della Natura) è la generalizzazione, su base sperimentale, e la formalizzazione, in linguaggio matematico, di un certo fenomeno fisico, espressione dunque di una regolarità riscontrata nei fenomeni naturali.

La legge morale naturale
https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_morale_naturale
La legge morale naturale è un concetto riconducibile alla corrente giusnaturalista, secondo cui nella natura sono iscritte delle leggi morali universali.
A seconda dei contesti, la legge morale naturale è un concetto riconducibile:
-al pensiero laico del giusnaturalismo, secondo cui nella natura (ossia nello spontaneo accadere dei vari fenomeni naturali tra i corpi reali, e i differenti risultati di comportamenti distruttivi o cooperativi tra individui) sono iscritte delle leggi morali universali antecedenti (temporalmente e gerarchicamente) alle leggi morali stabilite dall'uomo. Ciò stabilirebbe una indipendenza dalle successive leggi umane, istituzionali e sistemiche, razionaliste. L'etica sarebbe implicita nella natura stessa, e ciò renderebbe libero dai vincoli legislativi il libero individuo.
-al pensiero religioso della teologia morale, in base al quale la legge morale naturale è inscritta nel cuore dell'uomo da Dio stesso che la esplicita nella rivelazione.

Giusnaturalismo
https://it.wikipedia.org/wiki/Giusnaturalismo
Per giusnaturalismo o dottrina del diritto naturale (dal latino ius naturale, «diritto di natura») s'intende la corrente di pensiero filosofica che presuppone l'esistenza di una norma di condotta intersoggettiva universalmente valida e immutabile, fondata su una peculiare idea di natura (ma, come nota Bobbio, «‘natura' è uno dei termini più ambigui in cui sia dato imbattersi nella storia della filosofia»), preesistente a ogni forma storicamente assunta di diritto positivo (termine coniato dai medievali, derivato dal greco thésis, tradotto in latino come positio; e, appunto, positivum riproduceva letteralmente il senso greco del dativo thései, riferentesi al prodotto dell'opera umana) e in grado di realizzare il miglior ordinamento possibile della società umana, servendo «in via principale per decidere le controversie fra gli Stati e fra il governo e il suo popolo».


LA NATURA DEGLI ANIMALI E IL IUS NATURALE
http://www.dirittoestoria.it/dirittorom ... capIII.htm

Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano
Pietro Paolo Onida
Parte prima- Cap. III

1. Gli istituti comuni a tutti gli animali, anche non umani, e il ius naturale
Le concezioni filosofiche, pitagoriche e empedoclee, sulle quali ci siamo già soffermati, sono i ‘precedenti’ della nozione di ius naturale formulata da Ulpiano:
D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim ce­tera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.
La nozione elaborata da Ulpiano del ius naturale come ius che la natura insegna a tutti gli animali si fonda sulla analisi della affinità fra tutti gli esseri

2. La “natura commune animantium” come “principium” dei diversi “gradus societatis”, ivi compreso quello della “res publica"
L’idea di un diritto comune a uomini e ad animali non umani si fonda sulla considerazione di un’unica natura fra tutti gli animali, umani e non.
Cicerone, nel De republica, ricorda che Pitagora ed Empedocle ritenevano unica la condizione giuridica di tutti gli esseri viventi: unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, e reputavano delittuosa l’azione di colui che arrecasse danno agli animali non umani: ...


???
Il senso di giustizia delle scimmie
Una ricerca condotta negli Stati Uniti sembra dimostrare che scimmie e primati hanno un innato senso della giustizia e dell'equità e che sanno anche essere riconoscenti. Merito dell'evoluzione.
(Alessandro Bolla, 9 marzo 2009)

http://www.focus.it/ambiente/animali/il ... 90217-1447

La "nobiltà d’animo" degli animali supera di gran lunga quella degli esseri umani! Un recente studio condotto presso l’Università della Georgia (Stati Uniti) ha infatti messo in luce come scimmie e gorilla siano in grado di riconoscere l’equità e la giustizia e di offrire un aiuto altruistico ai compagni in difficoltà. E sembra che sappiano anche riconoscere i propri doveri. Frans de Waal, responsabile della ricerca, ha chiesto agli animali di svolgere una serie di semplici azioni, la cui corretta esecuzione è stata ricompensata con cibo o coccole. De Waal ha osservato come le scimmie mostrassero chiari segni di risentimento quando vedevano altre compagne ricevere ricompense più consistenti pur avendo compiuto lo stesso gesto, addirittura manifestando la propria rabbia rifiutandosi di continuare i giochi-test. La stessa ricerca ha evidenziato che i primati sono i grado di ricordarsi di chi ha fatto loro un favore e che si danno da fare per restituirglielo.
GENEROSI OPPORTUNISTI
Secondo alcuni scienziati, generosità e altruismo si sono sviluppati tra 500.000 e 800.000 anni fa, in un periodo di grandi cambiamenti climatici, quando i primi ominidi si spostarono nelle foreste e, per sopravvivere, dovettero imparare a cacciare insieme e difendersi dai predatori. In una simile situazione comportamenti egoistici e individualisti avrebbero potuto portare alla morte. Al contrario, gli individui generosi e riconoscenti sono riusciti a riprodursi.

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Scie ... mmie.shtml

Gli scimpanzè e il loro senso della giustizia
Nei primati il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto sono simili a quelli umani
15 gennaio 2013
http://www.corriere.it/animali/13_genna ... dff8.shtml

Il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto: è una caratteristica squisitamente umana, sintomo di un’evoluzione della specie. Nell’antichità era Nemesi ad amministrare le ricompense del fato e la giustizia riparatrice, ma l’equità non ha mai smesso di abitare nella mente dell’uomo, che di giustizia (a volte anche sbagliando) si è occupato fino dall’antichità. E ora uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences rivela che gli scimpanzè, pur non avendo una dea deputata a distribuire e gestire l’equità e le ricompense né un potere istituzionale dedicato a questo valore, avvertono tanto quanto l’uomo il senso del giusto e che persino la loro scala di valori ricalca in modo impressionante quella umana.

GIOCO DELL'ULTIMATUM - I ricercatori del Yerkes National Primate Research Center della Emory University di Atlanta, in collaborazione con i colleghi del Georgia State University, hanno infatti effettuato due serie di esperimenti su alcuni scimpanzè, sottoponendo gli animali a una sessione del gioco dell'ultimatum e paragonando le loro risposte a quelle di un gruppo di bimbi piccoli. Gli animali hanno dimostrato durante l’esperienza ludica un senso di equità normalmente attribuito solo all’essere umano, mostrando a loro modo di non sopportare una divisione non equa delle vincite tra due giocatori. Il gioco dell’ultimatum, come spiega l’autore dello studio, Darby Proctor, è largamente utilizzato in economia e sociologia come standard per determinare il senso dell’equo e consiste proprio nell’interazione tra due giocatori al fine di decidere come dividere una somma di denaro che viene data loro: il primo giocatore decide come dividere la somma tra sé e l'altro giocatore, ma il secondo può accettare o rifiutare e in quest’ultimo caso nessun giocatore riceverà nulla, mentre nel primo caso il denaro sarà suddiviso in base alla proposta del primo giocatore. Normalmente gli umani tendono ad attribuire una parte consistente del premio (intorno al 50 per cento) all’avversario e i primati dell’esperimento si sono uniformati alla perfezione alla propensione umana, rivelando altrettanta rettitudine.

BAMBINI E SCIMPANZÈ – L’esperimento ha coinvolto venti bambini di età compresa tra 2 e 7 anni e sei scimpanzè adulti. Nel gioco bambini e scimpanzè sono stati chiamati a scegliere due gettoni di differente colore che, con il consenso del partner, potevano essere rimpiazzati con cibo o adesivi (a seconda della specie). Un gettone premiava entrambi i giocatori, mentre l'altro favoriva chi faceva il furbo danneggiando l’avversario. Alla fine del test sia i bimbi che i primati hanno scelto il gettone «onesto» e hanno diviso il tutto in parti uguali, dimostrando un innato senso dell’onestà, a eccezione del caso in cui il ruolo del partner fosse passivo e quest’ultimo fosse impossibilitato a rifiutare l’offerta, condizione nella quale la scelta egoista ha prevalso invece in entrambe le specie.

SOLIDALI - Non stupisce alla luce delle tante scoperte pregresse che gli scimpanzè, oltre a essere solidali e altruisti, sensibili ed evoluti, siano anche naturalmente onesti e riluttanti ad accettare la disuguaglianza. Senza bisogno dell’intervento delle divinità o della magistratura, ma semplicemente per istinto.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:54 pm

Spazio vitale o prossemico per le piante, le bestie e gli uomini

http://www.stetoscopio.net/psicologia/m ... zio-vitale

Lo spazio vitale esiste davvero e misura in media circa 30-40 centimetri. A identificarlo concretamente è stato uno studio pubblicato su The Journal of Neuroscience e condotto da due ricercatori italiani Chiara Sambo e Giandomenico Iannetti del College University di Londra che sottolineano come lo spazio vitale in effetti vari da individuo a individuo.
Lo spazio vitale coincide con lo spazio davanti al viso che, inconsciamente, non vogliamo sia invaso da nessuno: consideriamolo pure come uno spazio di difesa e che tende ad essere diverso da individuo ad individuo.
Per misurare lo spazio vitale, i due ricercatori hanno lavorato sulla risposta involontaria di difesa, analizzando cioè la chiusura degli occhi che viene indotta di riflesso dalla stimolazione della mano del volontario.


La distanza interpersonale e i rapporti spaziali tra le persone e l’ambiente giocano un ruolo fondamentale nel sentirsi a proprio agio o a disagio in una certa situazione…

http://www.linguaggiodelcorpo.it/2011/10/20/prossemica
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... semica.jpg


Edward Hall, l’antropologo che ha coniato il termine prossemica, definisce questa discliplina “lo studio di come l’uomo struttura inconsciamente i microspazi – le distanze tra gli uomini mentre conducono le transazioni quotidiane, l’organizzazione dello spazio nella propria casa e negli altri edifici e infine la struttura delle sue città.“

In effetti, come gli animali abbiamo un nostro territorio e lo stabiliamo in ogni luogo in cui ci troviamo: da casa nostra, al nostro ufficio, al nostro banco a scuola o alla nostra scrivania sul lavoro fino al compartimento sul treno o allo spazio che circonda l’ombrellone quando siamo in spiaggia.

La territorialità è un meccanismo istintivo che negli animali consente la regolazione della diffusione della popolazione e della densità di insediamento; il territorio assume per l’animale un luogo sicuro, tanto è vero che un’animale che abbia perso il proprio territorio è più vulnerabile ai predatori.
Parallelamente, nelle dispute tra animali della stessa specie per il possesso di un territorio ha in genere la meglio il possessore del territorio; lo stesso avviene anche per l’essere umano; si sa, ad esempio, che una squadra di calcio che giochi in casa appaia sempre più temibile che se gioca sul terreno avversario.

Gli animali mostrano, quando un altro animale si avvicina ad una certa distanza, un comportamento di fuga: questa distanza é detta Distanza di Fuga e varia da specie a specie: per un antilope è di mezzo chilometro; per una lucertola, meno di due metri
L’animale, se può evita il confronto, per lo meno fin quando ha uno spazio sufficiente: oltre una certa distanza detta Critica, però, procede all’attacco del nemico o dell’invasore.

Alla stregua degli animali anche l’uomo ha un qualcosa di assimilabile alla Distanza di Fuga e a quella Critica; la reazione umana ad una violazione dello spazio personale è però più contenuta e alle volte non da luogo nemmeno all’azione.

La distanza in base a cui l’uomo regola i rapporti interpersonali è detta Spazio Vitale o Prossemico: potremmo rappresentarcela come una bolla di sapone che ci avvolga; ogni violazione dello spazio vitale, che nella nostra cultura si estende in ogni direzione per circa 70 cm. – 1 metro, porta ad un aumento dello stato di tensione; come dire che ogni tentativo di entrare nella bolla, provoca una pressione che viene avvertita come fastidiosa o sgradevole; questo possiamo verificarlo, quando siamo in ambienti affollati, in cui lo spazio prossemico si riduce, al punto di arrivare al contatto fisico; in quel caso, sopportiamo di essere messi “al muro”; non così se qualcuno ci si avvicina troppo quando c’è “spazio da vendere”!

In modo analogo, se entriamo su un treno, non andiamo nel primo scompartimento che troviamo, ma andiamo a cercarcene uno libero: se ci troviamo già nello scompartimento possiamo compiere atti che dissuadano gli altri ad entrare o a sedersi vicino a noi: ad esempio, mettendoci in piedi e rovistare nei bagagli sulle cappelliere proprio al momento in cui treno sosta nelle stazioni, oppure disseminando borse e valigie su tutti i posti disponibili.

Anche a tavola esprimiamo l’istinto del possesso territoriale; senza accorgecene, dividiamo il tavolo in due metà: se qualcuno, ad esempio, beve e nel poggiare il bicchiere, lo mette nella nostra ipotetica metà, avvertiamo un senso di stizza.

Tornando al concetto di spazio prossemico, va precisato che la “bolla” non è sferica: infatti, una violazione prossemica fatta sul fianco crea meno tensione di una fatta faccia a faccia, o per alcuni, se eseguita da dietro: la bolla ha, in definitiva, i contorni irregolari.
Inoltre, lo Spazio prossemico personale varia da cultura a cultura: è molto ridotto nei popoli dei paesi caldi (e tra i marocchini, gli arabi), in cui arriva quasi al contatto fisico; è, invece, molto ampia nei paesi freddi (ad es. tra gli inglesi è di circa 2 metri); da questa diversità, nascono dei problemi nei rapporti interetnici; l’uno può trovare l’altro appiccicoso e il secondo ritenere il primo freddo.

Distinguiamo 4 distanze prossemiche, in ogni distanza abbiamo una fase di vicinanza e una di lontananza:

– Distanza intima:da 0 cm. a 45 cm.
– Distanza personale: da 45 cm. a 70 cm./1 m.
– Distanza sociale: da 120 cm. a 2 m.
– Distanza pubblica: da 2 m. ad oltre i 2 m.

La Distanza Intima é la distanza dei rapporti intimi (es. tra partner) e sconfina nel contatto fisico; a questa distanza, si può sentire l’odore, il calore dell’altro e si possono avvertire le sue emozioni; gli sguardi diretti poco frequenti; il tono delle voce é più basso, così come il volume.

La Distanza Personale é la distanza adottata da amici o da persone che provano attrazione per l’altro: a questa distanza, si può toccare l’altro, lo si guarda più frequentemente che nel caso della distanza intima, ma non se ne sente l’odore.

La Distanza Sociale è una distanza formale adottata nei rapporti formali: con impiegati negli uffici, con commercianti, con professionisti.
La Distanza Pubblica è la capacità di percepire una persona o di farsi percepire a distanze superiori a due metri; normalmente, a questa distanza siamo percepiti come parte dell’ambiente. È presente solo in chi ha personalità pubblica: così, se passa Mario Rossi a dieci metri da noi, non lo notiamo, ma se quell’individuo é Michael Jackson avvertiamo immediatamente l’eccitazione della sua presenza.
Quando le persone si avvicinano l’una all’altro, modificano tutto il loro comportamento; così si riducono gli sguardi, la voce si fa più bassa e debole e gradatamente spariscono le gesticolazioni e aumentano i contatti fisici.
La Percezione prossemica si ribalta nei rapporti intimi: viene vissuto con piacere un avvicinamento e con sofferenza un allontanamento: se il mio partner ad una festa mantiene le distanze e parla con tutti, trascurandomi, lo vivo come un rifiuto. È per ribadire l’unione che coniugi, fidanzati o parenti stretti, costretti a tenersi a distanza dalle circostanze, si scambiano sguardi, qualche parola e a volte, fuggevoli contatti; alle volte, si assiste nel caso di legami stretti al comportamento di partner che, pur distanti, producono all’unisono e inconsapevolmente, variazioni di postura e movimenti sincronici ad esempio nell’annuire; inoltre, possono tendere mani e gambe l’uno verso l’altro o tenere le mani scostate come se si tenessero per mano
Lo status di un individuo influenza la dimensione della zona personale: tanto più elevata è la posizione sociale o lavorativa, tanto più ampia sarà la sua sfera prossemica; inoltre, dirigenti, graduati dell’esercito spesso reputano di essere in diritto di violare la distanza intima dei propri subordinati.
La distanza prossemica è influenzata da diversi fattori: etnici, di temperamento (una persona estroversa viola più facilmente lo spazio prossemico di una introversa); dallo stato d’animo (un individuo nervoso o furioso mostra di tollerare meno degli altri la violazione dello spazio personale; un depresso può anche non percepirla), dalla storia personale: se una donna ha subito uno stupro, può diventare particolarmente suscettibile all’avvicinamento di un uomo.
Un altro fattore che indice sulla percezione della distanza interpersonale è il sesso; una donna gradisce meglio un avvicinamento frontale e meno se qualcuno le si approssima da lato; per un uomo invece è l’esatto contrario.
Un ambiente particolarmente opprimente e minaccioso rende le persone più circospette e aggressive quando qualcuno si avvicina loro:in un esperimento sui carcerati è stato dimostrato come gli individui violenti abbiano un ampio spazio prossemico attorno, circa tre volte di più rispetto ai prigionieri non violenti; per altro, questi ultimi, mostrano un aumento della percezione prossemica posteriore: questo perchè, come è stato confermato dagli stessi reclusi, temono un attacco fisico o omosessuale da tergo.


https://it.wikipedia.org/wiki/Kurt_Lewin


http://www.sapere.it/enciclopedia/campo ... ia%29.html

Quando siamo ansiosi necessitiamo di maggiore spazio vitale
Jennifer Delgado
http://www.angolopsicologia.com/2014/07 ... mo-di.html
Che l'ansia sia una pessima compagna lo sappiamo tutti, ma ora un nuovo studio getta nuova luce sul tema scoprendo che le persone ansiose hanno bisogno di un maggiore spazio vitale intorno a loro.
Lo spazio vitale, per chi non lo sapesse, è lo spazio tra noi e gli altri di cui abbiamo bisogno per sentirci comodi. Come potete immaginare, la quantità di spazio vitale di cui si ha bisogno varia da una cultura all'altra a seconda di come viene considerato il contatto fisico. Così, nelle culture latine lo spazio interpersonale socialmente accettato è più piccolo rispetto alla cultura anglosassone, per esempio.
Tuttavia, in generale, le persone hanno bisogno tra i 20 ei 40 centimetri di spazio vitale per non sentirsi minacciate. Ma ora uno studio condotto dai ricercatori dello University College di Londra, ha rivelato che quando si soffre di ansia, abbiamo bisogno di maggiore spazio vitale intorno a noi.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato un gruppo composto da 15 giovani. L'esperimento consisteva nell’applicare uno stimolo elettrico ad un nervo della mano per fare in modo che questa oscillasse. Questo riflesso non si controlla in maniera cosciente e, inoltre, si è dimostrato che aumenta quando lo stimolo viene indotto all’interno dello spazio vitale della persona.
I ricercatori si sono limitati a stimolare le mani dei partecipanti da diverse distanze (a 4 cm, 20 centimetri, 40 cm e 60 cm). Ovviamente, ogni persona ha dovuto completare un test per valutarne i livelli di ansia.
Dopo aver monitorato le risposte, gli scienziati hanno scoperto che le persone affette da ansia percepivano gli stimoli come più pericolosi e necessitavano di un maggiore spazio vitale intorno a loro per sentirsi a proprio agio.

A cosa sono dovuti questi risultati?
Possiamo ipotizzare che le persone ansiose sono molto più sensibili agli stimoli ambientali e quindi tendono a reagire più rapidamente, anche prima che sia stato invaso il loro spazio vitale. Ma potrebbe anche essere dovuto al fatto che l'ansia ci rende più apprensivi e ci fa reagire in modo eccessivo agli stimoli.
In un modo o nell'altro, questo studio ci aiuta a mantenere le distanze adeguate; cioè, se avete a che fare con persone che soffrono d’ansia, è meglio non avvicinarsi troppo a loro, in modo da evitare che si sentano a disagio.


Prossemica: il rapporto con lo spazio
http://beneconse.forumfree.it/?t=19719263
Riguarda il rapporto dell’uomo con lo spazio; secondo quanto espresso da E. T. Hall (1968 – “La dimensione nascosta”), essa comprende i concetti di:

1. dimensione psicologica
2. territorio
3. distanza interpersonale

La grandezza psicologica del nostro corpo. La nostra grandezza fisica è nota ed intuitiva, meno ovvio e intuitivo è il concetto di dimensione psicologica della quale occorre essere consapevoli per posizionarci correttamente rispetto agli altri.
Il bambino che indossa abiti o scarpe dei suoi genitori non si sente ridicolo ma grande; da adulto l’uomo continua ad indossare abiti e scarpe che abbiano la stessa funzione che svolgono per il bambino: rimodellare l’immagine complessiva del nostro corpo per conformarlo all’idea che noi abbiamo in mente. La nostra percezione viene modificata e fa si che quando indossiamo un abito o un qualsiasi capo di abbigliamento, questo viene vissuto non come un oggetto estraneo ma come un’estensione del nostro corpo. Un abito in un certo senso rappresenta per noi ciò che è il guscio per una tartaruga. Non è solo una protezione ma una parte dell’organismo stesso.

Quanto detto vale per:

* i vestiti che indossiamo
* il modo in cui ci muoviamo nello spazio
* il vigore e l’ampiezza delle nostre gesticolazioni
* ecc
Se vogliamo sentirci più grossi potremmo indossare abiti larghi, con spalline e imbottiture; questo cambiamento di immagine non ha effetto solo su di noi ma anche su chi ci guarda e, sorprendentemente, anche se siamo a conoscenza del “trucco” questo continua, seppure in modo mitigato, a fare effetto su di noi.
Stesso principio per i colori dell’abbigliamento; a parte il dato ormai noto che il nero smagrisce e il bianco allarga, altri colori influiscono sull’impressione che diamo agli altri; se siamo schivi e timidi tenderemo ad indossare abiti dai colori spenti (gonne verde opaco, giacche a quadrettoni marroni = abbigliamento da camaleonti, servono per mimetizzarsi con l’ambiente circostante); non a caso le persone che indossano abiti dai colori spenti sono quasi sempre le stesse che ad una festa si mettono nei posti isolati o in una tavolata si siedono agli angoli.
Alcune persone in soprappeso, indossano maglioni ampi per nascondere i chili di troppo; questo potrebbe avere un senso se si volesse nascondere una parte del corpo più grassa ma se si avesse nel complesso un fisico magro; un maglione abbondante indossato su un fisico abbondante non fa che farlo sembrare ancora più grosso.
Desmond Morris (etologo, 1977) fa rivelare che nel periodo dell’adolescenza le donne hanno uno sviluppo delle gambe di gran lunga maggiore rispetto agli uomini; la “gamba lunga” diventa così un tratto distintivo femminile. Le scarpe con il tacco, le cinture alte vengono utilizzate dalle donne proprio per accentuare la lunghezza delle gambe. La gonna a tubo costringe le ginocchia a stare vicine e quindi esalta la parte dei fianchi e del fondoschiena.
L’altezza maschile è un tratto che attrae l’altro sesso; di conseguenza l’uomo che mette le scarpe con un po’ di tacco per essere più alto è comprensibile, non altrettanto scontato è il fatto che uomini molto alti possano indossare calzature senza tacco per dare l’impressione di essere più bassi e quindi “nella norma”.
Le posizioni che assumiamo nello stare ritti, nel camminare, nello stare seduti, nell’appoggiarsi a un muro o ad un bancone sono un altro modo per modificare la percezione della nostra dimensione psicologica. Le adolescenti che vedono spuntare il seno o le donne che hanno un seno molto grande, spesso incurvano le spalle in avanti per “nascondere” questa caratteristica.
Tutti conoscono lo stereotipo dell’uomo di mezza età che, al passaggio di una bella ragazza, tira indietro la pancia e gonfia il petto.

....

Il territorio. Gli uomini, come gli animali, hanno un proprio territorio, lo circoscrivono, lo difendono e lo “conquistano” in ogni ambiente o situazione in cui si trovano.
Noi abbiamo modi più sottili e civilizzati (a volte!) di delimitare il nostro spazio territoriale, ma il nostro comportamento non differisce di molto da quello degli animali.

Perchè abbiamo necessità di un territorio?
Ci dà forza, sicurezza, intimità e stabilità. È noto che una squadra di calcio è più temibile se gioca in casa, il fatto di trovarsi sul proprio terreno la rende più tenace e, per contro, intimidisce l’avversario. Chi si reca in altre città per studio o lavoro cerca frequentemente un alloggio, non è solo comodità ma spesso è l’esigenza di sentirsi a “casa propria”, di rigenerarsi, di trovarsi in un ambiente sicuro e protetto. È quindi comprensibile il senso di precarietà dei senzatetto o dei terremotati o alluvionati. Ad ogni modo anche i barboni tendono a ricoverarsi sulla stessa panchina o collocano gli scatoloni nello stesso angolo di strada: è la necessità di un territorio.

La marcatura dello spazio.
Spesso su pali, cortecce di alberi, tavolini dei bar, banchi di scuola, porte delle toilette si trovano scritte, nomi, graffiti… si tratta di un bisogno ancestrale (e di cattiva educazione); queste persone non resistono all’impulso inconscio di affermare la loro proprietà (questo è mio). Naturalmente esistono anche modi più civili e socialmente accettabili di delimitare il territorio: si erigono muretti, si recingono i terreni, si mette il nome sul campanello della porta. Il senso del possesso del territorio è forte in noi e lo possiamo notare quando qualcuno tocca le nostre cose o si siede sulla nostra poltrona o entra in giardino. All’interno della nostra abitazione abbiamo spazi più o meno personali; spesso tendiamo a non fare entrare nessuno in camera da letto a meno che non sia molto vicino a noi.

Gli adolescenti spesso “marcano” la propria stanza attaccando poster, adesivi, fissando striscioni; a volte anche lasciare i propri indumenti sulle sedie o sul letto può avere a che fare con la definizione del proprio territorio. Secondo Morris D. (1977 – “L’uomo e i suoi gesti”) la camera da letto è la parte del territorio di casa “più nostra” perchè è il luogo in cui mediamente trascorriamo più tempo, impregnandola del nostro odore più degli altri ambienti.

La difesa.
Anche all’interno di un ambiente poniamo delle barriere (rappresentate dall’arredamento) che definiscono i limiti del nostro territorio (scrivania, bancone, cattedra). Un insegante che quando spiega si muova nell’ambiente o rimanga arroccato in cattedra comunica rispettivamente una maggiore o minore apertura e disponibilità. Un professionista dietro ad una scrivania può, attraverso i movimenti del suo corpo, mitigare o ampliare il senso di distanza trasmesso dal tavolo; se si appoggia allo schienale si allontana di più. Avvicinando invece il busto al bordo della scrivania diminuisce l’impressione del distacco e mostra maggiore partecipazione. Alcuni psicologi adottano setting privi di scrivania, scegliendo di condurre la seduta su due poltrone poste una di fronte all’altra. Rimuovere una barriera fisica, però, non significa essere completamente disponibili, il nostro corpo può cosituire un ostacolo. Possiamo attestare un possesso territoriale appoggiandoci, e quindi toccando oggetti o arredi di nostra proprietà; spesso ci comportiamo in questo modo quando c’è la minaccia di “un’invasione”. Se ci appoggiamo alla porta appoggiandoci agli stipiti (sbarrando il passo) probabilmente non gradiamo che la persona che ha bussato entri in casa; un negoziante che, alla visita di un rappresentante, appoggia le braccia sul bancone e tenda il busto in avanti è in posizione di sfida, probabilmente lo trova invadente. Toccare significa possedere, ci sono persone che, dopo l’acquisto dell’auto nuova, si fanno fotografare con la mano appoggiata alla carrozzeria.

La conquista.
Il bisogno di possedere un territorio ci caratterizza ovunque siamo; per esempio, se ci troviamo su un treno non entriamo nel primo scompartimento che capita, ma proseguiamo nella ricerca di uno libero. Un modo comune per delimitare il territorio in una sala d’attesa, su un autobus, ecc, è mettere tra se e l’altro o sul posto a fianco al nostro un libro, la borsetta, ecc. Se invece siamo seduti su un divano possiamo scostare le braccia dal corpo, appoggiandole qualche decina di centimetri più in là: la zona circoscritta dalla posizione delle nostre mani segnala il nostro territorio. Una spiaggia o un prato possono diventare un luogo di spartizione dei lotti. Osservando la disposizione delle stuoie, lettini o asciugamani possiamo valutare il tipo di rapporto che c’è tra gli individui. Oltre i 3 metri si collocano gli sconosciuti, fra i 3 metri e il metro e 25, conoscenza abbozzata o formale. Tra il metro e 25 e i 40 centimetri possiamo ritenere che gli individui siano buoni amici. Se stuoie o lettini sono accostati abbiamo a che fare con ottimi amici, con partner o parenti (quanto appena detto vale se l’area non è super affollata). La biblioteca è un altro di quei posti dove fissiamo i limiti del nostro territorio per esempio utilizzando le sedie per appoggiare borse e giacche anziché appenderle. Il tavolino del bar è spesso terreno di contesa territoriale; in genere due persone dividono il tavolo in due settori e pongono bicchieri, tazze, pacchetti di sigarette o portachiavi in modo tale da formare una sorta di perimetro che delimita i confini del territorio. Se una persona mette il suo bicchiere sull’angolo del tavolino, significa che ha limitate pretese territoriali, il che va interpretato come indice di una personalità schiva, timida e, in un certo senso, rinunziataria. La scelta dei posti a sedere è anche influenzata dal calore residuo che la persona lascia sulla sedia che ha occupato. La maggior parte delle persone prova forte avversione e disgusto nei confronti di una temperatura non familiare; per contro è esperienza gradevole trovare il letto caldo se scaldato dal partner o, nei bimbi, dalla mamma (Hall, 1968). Al contrario qualcuno può disporre oggetti su tutta la superficie del tavolo come se lo spazio fosse tutto a sua disposizione: si tratta di individui invadenti e soffocanti, che tendono a prevaricare sull’altro e a non lasciargli letteralmente spazio.

Le distanze.
Quando ci troviamo con altri cerchiamo di mantenere una distanza che rappresenti il punto di equilibrio tra il desiderio di mantenere la vicinanza e quello di evitare il contatto (Argyle e Dean, 1965; Argyle e Cook, 1976). Acquisiamo fin da piccoli un codice che regola la distanza interpersonale: impariamo a non stare troppo vicino agli altri e apprendiamo come modificare altri parametri non verbali, quando la distanza tra noi e il nostro interlocutore subisce variazioni. Sembra quasi una danza; è come se fossimo circondati da una bolla di sapone, nel momento in cui l’altro si avvicina comprime la bolla e noi avvertiamo un senso di pressione, che ci spinge un po’ più lontano. Quindi estendiamo, come con gli abiti o gli oggetti, la nostra sensibilità ad un perimetro invisibile che ci circonda.

Questo perimetro è definito “spazio prossemico” e ha contemporaneamente due radici: una innata che trae origine dalla nostra appartenenza al regno animale e l’altra culturale che dipende dall’ambiente in cui viviamo (Hall, 1963 e 1968).

Gli animali.
Dispongono di 4 tipi di distanza (E.T. Hall) che regolano i rapporti tra individui della stessa specie o di specie diverse:
1. distanza di fuga
2. distanza di attacco
3. distanza personale
4. distanza sociale
Le prime due sono attive tra specie diverse, le restanti hanno significato all’interno della stesse specie e dello stesso branco.

L’uomo.
Per la specie umana alcune distanze si sono pressoché “atrofizzate” o solitamente non hanno modo di essere sperimentate.
Per noi esistono 4 distanze o “zone interpersonali”:
1. distanza intima
2. distanza personale
3. distanza sociale
4. distanza pubblica
Il fatto di vivere in società e di differenziare ruoli diversi all’interno di questa ha portato però l’uomo a diversificare e ampliare la dimensione e i comportamenti della sfera personale. Ogni distanza, a propria volta, ha una fase di lontananza.

La zona intima.
Va da 0 centimetri (contatto fisico) a 40 centimetri. È lo spazio che contrassegna i rapporti intimi; possiamo percepire il calore dell’altro, il suo odore, le variazioni emotive più sottili. Entro questo spazio (sia per ridurre la tensione indotta dalla distanza ravvicinata, sia per contrassegnare l’intimità della situazione) il comportamento è caratterizzato da: voce più bassa (sia per il tono che per il volume, le gesticolazioni sono pressoché assenti, gli sguardi fortemente ridotti, gli argomenti di conversazione sono più personali e delicati (Argyle e Dean, 1965; Cappella, 1981).

La zona personale.
Si situa tra i 40 e i 120 cm. È una distanza che ha un estremo ai confini con la zona intima e l’altro ai margini della zona sociale. Quanto più ci si avvicina alla zona intima tanto maggiore sarà la confidenza tra chi interagisce; la distanza personale è quella che mantengono gli amici. Le interazioni con amici e conoscenti (nella nostra cultura) avvengono di norma attorno ai 70 centimetri una distanza tale che permette di ritirarsi nel caso l’altro si faccia troppo insistente e fastidioso, ma che sottolinea altresì l’informalità e la gradevolezza della relazione. In questa zona: aumentano gli sguardi reciproci, i gesti fanno la loro comparsa ma sono contenuti, la voce ha tono e volume medi, l’odore e il calore dell’altro diventano più rarefatti e al limite esterno di questa zona non riescono più ad essere percepiti. Questo spazio tra se e l’altro può essere indice di attrazione; una riduzione della distanza interpersonale che induca due interlocutori ad avvicinarsi (a penetrare nelle reciproche sfere personali) accompagna il momento in cui la discussione si fa accesa, appassionata, coinvolgente. La riduzione di questa distanza può diventare un segnale di minaccia, soprattutto se accompagnata da un volume di voce più forte e da un tono più duro, che segnala l’impulso ad aggredire l’altro. Il passaggio dalla zona personale a quella intima è, generalmente, indice di un rapporto stretto tra le due persone; quando però queste ultime camminano fianco a fianco distanti poco più di mezzo metro questo non va necessariamente inteso come segnale di un rapporto. La posizione fianco a fianco, è vissuta come la meno minacciosa e, quindi, è quella a cui si acconsente all’altro di avvicinarsi di più.

La distanza sociale.
Tra il metro e 20 e i 2 metri. È lo spazio che viene mantenuto tra persone sconosciute, con cui si intende mantenere la distanza e nelle relazioni molto formali (es. ufficio aperto al pubblico).

La distanza pubblica.
Oltre i 2 metri. Le persone che si collocano in questa zona non sono in genere vissute come entità. La temperatura è uno dei fattori che maggiormente influenzano la percezione della distanza pubblica, in particolare nei casi di affollamento. La sensazione di trovarsi in un ambiente affollato è direttamente proporzionale all’aumento di temperatura; in poche parole più fa caldo e meno sopportiamo la vicinanza delle altre persone (pensiamo a quanto sia fastidioso toccare anche solo un braccio o una gamba del nostro partner se siamo al mare sotto al sole cocente, contatto altrimenti gradevole, Hall 1968). Purtroppo l’affollamento dei mezzi pubblici è una realtà con la quale dobbiamo convivere quotidianamente.

Come si reagisce quando si sale su un autobus assiepato?
* eseguiamo mille contorsioni per evitare di toccare ed essere toccati
* se l’ambiente è talemente affollato da non potere evitare il contatto irrigidiamo il nostro corpo in modo da potere ridurre al minimo la superficie di contatto
* se tutto ciò non è ancora sufficiente ci proteggiamo con uno schermo psicologico che ci porta a considerare l’altro come un oggetto inanimato o parte dell’arredamento, né più né meno di un sedile o di un passamano (D. Morris 1977).

L’influenza dell’ambiente culturale.
Secondo E. T. Hall esistono due tipi di culture: quella “del contatto” e quella del “non contatto”, a seconda che si viva in uno di questi due ambiti prevarrà un’inclinazione alla vicinanza o alla lontananza. La nostra come quella americana o tedesca è una cultura del “non contatto”. Nel mondo occidentale la cultura che esprime in maniera più marcata il valore del “non contatto” è quella anglosassone (distanza personale: 2 metri); all’estremo opposto nella cultura araba lo spazio personale praticamente non esiste, sconfinando nel contatto con l’altro.
Le differenze tra uomini e donne.
La “bolla” che rappresenta il nostro confine invisibile è sferica per le donne mentre per gli uomini assomiglia a un uovo. Gli uomini tendono ad avere una bolla interpersonale più grande e a mantenere la stessa distanza sia con individui dello stesso sesso sia con le donne. Le donne tendono a stare più vicine alle altre persone e la distanza sarà ancora minore se l’interazione avviene con un’altra donna (Leibman, 1970). Un’altra differenza tra uomini e donne sta nel modo con cui ci si avvicina a qualcuno. Le donne preferiscono avvicinare gli altri di fronte, i maschi tendono a porsi di lato. Una donna mostra maggiore fastidio se qualcuno si siede al suo fianco (es. in biblioteca) e meno se le si accomoda di fronte). Per l’uomo è l’opposto, se qualcuno si siede di lato quasi non lo nota mentre è infastidito se si pone davanti o alle spalle (Fisher e Byrne, 1975).

Il carattere, la posizione sociale e lo stato d’animo.
La distanza a cui ci lasciamo avvicinare è in relazione anche al nostro umore, alla nostra personalità e alla nostra posizione sociale. Se siamo felici ci lasceremo avvicinare più di quanto solitamente saremmo soliti tollerare; se invece siamo di umor nero ci irrita qualsiasi avvicinamento anche ad una distanza superiore al limite esterno della nostra zona personale. Se qualcuno ci fa arrabbiare facilmente invaderemo il suo spazio personale; però se la nostra aggressività è inibita o se non possiamo manifestarla apertamente tenderemo a prendere le distanze (comportamento che serve a tenere sotto controllo il rancore oppure a comunicare all’altro che vogliamo evitarlo; Meisels e Carter, 1970). È tipico che quando due partner litigano uno si tenga a distanza per punire l’altro negandogli il proprio contatto. Chi è ansioso tende a tenersi vicino ai propri interlocutori (bisogno di sentirsi accettato); in questi casi chi subisce la violazione del proprio spazio tende a ripristinare le distanze facendo un passo indietro; la “danza” prosegue fino a che l’altro si addossa ad una parete e manifesta segni di stizza. Anche l’introversione e l’estroversione influenzano sia la distanza alla quale si accetta di essere avvicinati o la tendenza ad avvicinarsi (gli estroversi violano e lasciano violare le distanze con maggiore disinvoltura). Lo status incide a sua volta nel determinare i confini dello spazio interpersonale e la frequenza e la profondità delle violazioni (es. il capo viola più frequentemente lo spazio dei collaboratori e la distanza a cui si avvicina è inferiore alla media. Questo modo di regolare la distanza prossemica serve al capo per attestare e riaffermare la posizione di superiorità).

Fonti
- Argyle M., Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna 1978
- Birkenbihl V.F., Segnali del corpo, Angeli, Milano 1998
- Hall E.T., La dimensione nascosta, Bompiani, Milano 1968
- Nanetti F., La comunicazione trascurata, Armando, Roma 1996



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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:54 pm

Diritto preistorico


L'Antropologia del diritto fra teorie evoluzioniste, stereotipi e tradizione
di Barbara Faedda

http://www.diritto.it/articoli/antropol ... edda8.html

a) La differenza giuridico-culturale e i popoli "primitivi"

La specie umana e la cultura in genere sono contraddistinte dalla variazione culturale: per comporre la propria identità, infatti, l'uomo produce differenza.

Proprio riguardo a questa molteplicità e proliferazione l'antropologia giuridica considera il suo oggetto di studio, ossia il diritto, solo uno dei numerosi elementi di un sistema, variamente interpretato e realizzato in rapporto al gruppo di riferimento.

Qualora non si tenga conto della pluralità delle possibilità e delle creazioni culturali, ci s'imbatte in una "presunzione" che viene spesso dimostrata attraverso quella tipologia di definizioni per mezzo delle quali si asserisce, ad esempio, che gli aborigeni non abbiano alcun sistema giuridico. L'antropologia giuridica, muovendo i passi dall'antropologia sociale e culturale ha potuto, prima attraverso le monografie etnologiche poi attraverso un dibattito sempre più critico, affermare, con autorevolezza, l'esistenza presso tutti i popoli di "fatti con caratteristiche giuridiche".

La nozione stessa di diritto, infatti, è quanto meno variabile e dipendente dalla specifica società cui si riferisce; purtroppo, nel tempo, si è sempre più imposto l'atteggiamento caratteristico dell'etnocentrismo giuridico occidentale che ha voluto, spesso, identificare il diritto con lo Stato, individuando le forme più prossime alla perfezione proprio entro i confini europei e in alcune culture mesoamericane, africane o asiatiche, in gran parte oramai scomparse.

Il centrismo, l'etnocentrismo e il pregiudizio sono stati, e lo sono tuttora, oggetto di numerosi studi e ricerche antropologiche e sociologiche. L'etnocentrismo, soprattutto, ossia il considerare il proprio gruppo al centro del mondo giudicando le altre culture in base ai propri valori di riferimento, è stato il principale responsabile della mancata conoscenza di talune culture etno-giuridiche. In realtà, seppur dopo secoli, ci si è ritrovati a far proprio il concetto greco di "barbaroi" riferito a tutti coloro che non appartenevano alla stessa matrice culturale.

Così concepita, la scienza del diritto lasciava ovviamente da parte le società definite e considerate "selvagge", "senza storia", in una parola "primitive". La non conoscenza dei diritti "altri" si è trasformata facilmente in pregiudizio: il diritto non poteva nascere che all'interno d'istituzioni statali, raggiungendo il massimo sviluppo solo in contesti europei e soprattutto classici. I popoli indigeni erano così letteralmente tagliati fuori dal dibattito giuridico "culto" per mancanza pressoché totale di istituzioni e sistemi definibili giuridici, secondo i più rigidi schemi di riferimento occidentali.

Il concetto di "primitivo" era un retaggio, un pesante fardello, lasciato in eredità dagli studi evoluzionistici, ma già l'Illuminismo aveva abbondantemente romanzato la figura del selvaggio, poggiando tale creazione sulla cosiddetta letteratura amerindia. Nel XVIII secolo si elaborò la teoria dello sviluppo dell'umanità attraverso stadi: l'antropologo americano, di formazione giuridica, Lewis Henry Morgan propose uno schema di sviluppo delle società che andava dalla selvatichezza alla civiltà passando per la barbarie (riprendendo uno schema già adottato da Montesquieu).

Di questa etichetta di "primitivi" si può affermare che, ancora oggi, non ci si è del tutto liberati. Anche se si comprese nel tempo, attraverso una varietà di studi e ricerche, che i cosiddetti "primitivi" erano solo tecnologicamente meno avanzati, si continuò a dividere l'umanità ancora in due emisferi: i civili, ossia gli occidentali, e gli incivili, ossia le popolazioni extraoccidentali.

Nella seconda metà del XX secolo prendeva però forza il dibattito scientifico proprio sul concetto di primitività. Esso fu messo seriamente in dubbio, a tal punto che la maggioranza degli antropologi culturali, sociali e del diritto decise che fosse arrivato il momento di abbandonare tale termine e di cercarne altri che non contenessero le stesse connotazioni negative.

Una delle critiche fondamentali era ovviamente rivolta all'implicazione sottesa al termine, in base alla quale, come abbiamo appena visto, si reputa che le popolazioni così designate rappresentino uno stadio precedente o originario, una sopravvivenza evolutiva, un residuo preistorico. Si contrastò l'idea che esistesse una mentalità primitiva che differiva qualitativamente da quella dei popoli "progrediti" o "civili", che erano ovviamente i "bianchi" occidentali. Si riteneva che la mentalità primitiva fosse pre-logica[ii] e dominata istintualmente dalla radicata credenza in forze soprannaturali.

I "popoli primitivi" sono stati considerati biologicamente inferiori e "senza storia": si credeva in pratica che fossero incapaci di qualsiasi mutamento e quindi condannati alla staticità e alla stagnazione culturale.

In occidente il termine "primitivo" è stato spesso associato a quello di "razza": un concetto quest'ultimo particolarmente pregnante e potente. Sebbene non esista nessun fattore scientifico che sul piano biologico autorizzi oggi a suddividere la specie umana in "razze" diverse, tale concetto è ancora molto in uso: esso viene utilizzato strumentalmente per classificare, ed escludere sistematicamente, i membri di precisi gruppi sociali. Il concetto di razza è impiegato per attribuire, al di là delle caratteristiche fisiche, anche peculiarità psicologiche e morali, giustificando in tal modo un sistema sociale discriminatorio.

Già l'Antropologia fisica scoprì nel passato che non esistono gruppi razziali fissi, ma che, piuttosto, essi mutano continuamente, interagendo permanentemente. Ovviamente, le differenze esteriori tra gli individui sono innegabili: ma esse sono unicamente semplici tratti distintivi, poiché riflettono debolmente il patrimonio genetico e spesso sono influenzati esclusivamente da fattori ambientali.

L'antropologia giuridica, dal canto suo, s'impegnò affinché si riuscisse a far luce sulle peculiarità etno-giuridiche dei popoli extraoccidentali. Dimostrò ampiamente che il diritto esisteva anche tra i cosiddetti "primitivi", persino quando non si riscontrava una forma statale. Purtroppo, molti giuristi conservatori hanno continuato ad asserire che le società non in possesso di un corpus ben definito di norme non hanno neanche un diritto.

Ritenendo così che molte delle società extraoccidentali sono state incapaci di produrre un sistema giuridico autoctono, si è rafforzata l'idea che gli europei abbiano veramente "civilizzato" il mondo, "regalando" ai poveri selvaggi gli unici veri diritti degni di questo nome: il Civil law e il Common law. Molta parte degli studiosi occidentali di diritto comparato continua a suddividere la produzione normativa mondiale in due grandi blocchi, appunto quello di Civil law e quello di Common law, relegando quelli che chiamano diritti consuetudinari alla sfera del periodo precoloniale e reputandoli oramai una produzione etnica appartenente ad un passato remoto di difficile risveglio.

In Africa i missionari, già nei primi anni dell'Ottocento, s'incaricarono di risolvere le dispute fra autoctoni servendosi della legge biblica e delle procedure anglosassoni. Lo stesso si registrò nelle colonie del Pacifico, dove anche i rituali cristiani hanno contribuito allo sradicamento delle tecniche locali di riabilitazione dell'armonia sociale.

Le sovrapposizioni, le imposizioni, gli innesti e i trapianti giuridici sono stati un'arma forte della colonizzazione europea nel mondo: l'antropologo si è reso conto che residui di particolarismi e di pluralismi etnogiuridici rimanevano talvolta gli unici testimoni dei superstiti diritti tradizionali. Non solo, ma dalla decolonizzazione in poi, ha assistito ad un nuovo processo di occidentalizzazione dei metodi, delle strutture e delle tecniche giuridiche, denunciando in tal modo la difficoltà crescente di individuazione della produzione e delle modalità normative etniche. Ancora una volta l'occidente "civilizzava".

Questa ristrettezza di vedute, questa ennesima adesione all'idea del potere civilizzatore della cultura occidentale, questo continuo riconoscere solo all'Europa (e al mediterraneo in particolare) lo status di culla del diritto universalmente valido, hanno impedito a lungo la possibilità dell'instaurazione di rapporti di scambio e collaborazione con l'Antropologia del diritto.

Ci si è fermati in tal modo ad una conoscenza superficiale e distorta dei diritti autoctoni; laddove non si riscontravano le aule dei tribunali, i codici scritti, i banchi degli imputati e le toghe non poteva esistere il diritto. Solo chi avesse utilizzato codici simili a quelli occidentali avrebbe goduto di considerazione: per tutti gli altri il discorso era chiuso a priori. Fu un celebre antropologo, Radcliffe-Brown, ad opporsi con fermezza all'applicazione del binomio diritto penale/diritto civile alle società senza scrittura. Dopo di lui, con il contributo dei numerosi lavori sul campo, si giunse a spostare il baricentro del dibattito dal contrasto tra concetti giuridici occidentali ed extraoccidentali ad una nuova comprensione dei sistemi indigeni di controllo sociale all'interno del proprio contesto culturale di riferimento. In seguito, la ricerca si rifinì ulteriormente e, dallo studio dei sistemi di controllo sociale, si è passati a studiare i sistemi di risoluzione delle controversie. È stato il momento in cui ha espresso il suo vigore scientifico l'approccio "casistico": il caso giudiziario divenne cioè l'unità d'analisi. Un altro celebre antropologo del diritto, Max Gluckman, formulò la tesi secondo la quale se si è in grado di stabilire la natura dei rapporti sociali tra le parti in lite, si può conseguentemente prevedere quale tipologia di procedure si adotteranno nel processo decisionale. La relazione che vi è tra le parti condiziona la risoluzione della controversia; l'elemento cardine è rappresentato fondamentalmente dalla necessità di mantenere rapporti di tipo duraturo, scongiurando la rottura di relazioni sociali importanti.

Negli anni sessanta il metodo "casistico" è stato notevolmente arricchito ed ampliato: gli studi sul campo hanno contribuito a mettere in luce l'importanza anche dei legami di lealtà, dello scontro diretto, del senso del pudore e del ridicolo, della varietà delle alternative che si hanno a disposizione. Si è giunti in tal modo ad un approccio tipicamente "procedurale", attraverso cui si è riusciti ad approfondire i meccanismi e le dinamiche delle negoziazioni.

L'antropologia del diritto ha voluto e vuole tuttora dimostrare che il campo giuridico è molto variabile e ricco. Ha sostenuto che l'aggettivo "giuridico" può riferirsi ad una molteplicità di sistemi e valori. Paul Bohannan, antropologo africanista specializzato nello studio dei Tiv della Nigeria, ha sostenuto, in tal senso, la teoria dell'impossibilità di creare una definizione universale di diritto, una che valga egualmente in ogni parte del mondo; si può invece individuare una "doppia istituzionalizzazione", ossia quel duplice procedimento in base al quale le norme di comportamento diventano giuridiche quando vengono riformulate ad un diverso livello, con lo scopo di ampliare il raggio d'azione del controllo anche su altre istituzioni sociali. In altre parole, ad un primo livello si "fissano" i costumi e l'etichetta, ad un secondo le norme di diritto vere e proprie.

Altre ricerche etnologiche hanno dimostrato l'enorme ricchezza della produzione giuridica presso le culture indigene, ognuna con le proprie peculiarità e soprattutto con le proprie varietà. Gran parte di tale ricchezza etnogiuridica poggia sul ventaglio di alternative possibili, soprattutto per quanto riguarda la risoluzione delle controversie. L'esistenza di regole giuridiche alternative, adattabili allo stesso contesto, ci porta a riconoscere una molteplicità di forme giuridiche che riescono ad operare contemporaneamente. Questo è il pluralismo giuridico: esso caratterizza i sistemi sociali e rende il diritto un discorso ed una pratica polifonica.

Oggi sappiamo che molte società tradizionali obbediscono, non tanto a norme esplicite, quanto a modelli di comportamento, la cui sanzione non è automatica, come potrebbe sembrare necessario a noi, secondo il nostro punto di vista.

In realtà, il problema dell'alterità è determinante. E riguardo questa tematica l'Antropologia culturale e l'Antropologia sociale sono state un faro nella notte. Esse si posero, infatti, come scienza dell'uomo in rapporto alle sue molteplici varianti culturali.

E da qui, nell'ottocento, è nata l'antropologia giuridica. Essa al principio fu fortemente influenzata dall'evoluzionismo unilineare. L'evoluzionismo legittimava l'opera coloniale quale strumento d'accelerazione della storia: sottomettere i popoli "primitivi" e "selvaggi" significava civilizzarli.

L'occidente fu vittima consapevole (e sotto tanti aspetti lo è ancora) del più bieco etnocentrismo: considerò le società "altre" in rapporto alle proprie categorie ideali, reputandole universalmente valide, le migliori. Di qui, il passo verso una profonda e violenta svalutazione culturale fu breve. Questo movimento irrazionale è stato molto presente nel campo del diritto e le "cronache" di etnocentrismo giuridico riportano esempi drammatici, di cui molti paesi ancor oggi pagano le conseguenze.

Tra i principali fondamenti di tale etnocentrismo giuridico si possono individuare soprattutto due elementi ben precisi: l'eredità del diritto romano, considerato a lungo come Ragione Scritta; la codificazione napoleonica, influenzata contemporaneamente dal diritto romano e dalle idee dei filosofi razionalisti del XVIII secolo.

Questa tradizione, gloriosa e ricca, è adatta senza dubbio al nostro tipo di storia e cultura, ma non può rendere conto di tutte le culture giuridiche mondiali, a loro volta costruite intorno a sistemi di valori, peculiari delle rispettive società di riferimento.

Proprio le su citate peculiarità dei diritti indigeni sono state maggiormente sottovalutate dai giuristi occidentali: il fatto che tali diritti spesso siano trasmessi oralmente è stato considerato sinonimo di approssimazione, labilità, instabilità ed arbitrarietà.

La pluralità degli ordinamenti giuridici fu interpretata non come esempio di ricchezza e multiforme creatività, ma come disordine e ingiustizia rispetto alle ideologie occidentali unitariste ed egualitariste.

I giuristi europei non riuscirono, e non vollero neanche tentare, a riportare, reinterpretandola, la specificità dei concetti aborigeni in un corrispondente linguaggio giuridico. Testimonianza di ciò rimane senza dubbio l'enorme importanza di cui godette l'opera di Ermanno Post, Ethnologische Jurisprudenz, un'estensione applicativa dello schema classificatorio pandettistico alle realtà giuridiche "esotiche". Attraverso un taglio dichiaratamente evoluzionista, anche questo noto autore confermò nel suo testo la possibilità di individuare degli stadi fissi di sviluppo per tutta l'umanità.

Tale atteggiamento etnocentrico è tuttora più diffuso di quanto si creda. Si tende in modo permanente di affermare e definire esclusivamente i propri interessi e le proprie caratteristiche, dando loro una veste di autorità assoluta, di universalità.

Per questo l'Antropologia culturale risulta fondamentale in questo discorso di etnocentrismo giuridico: il fine principale dell'insegnamento delle culture non occidentali dovrebbe essere quello di stimolare la curiosità, di creare nuovi saperi e di rendere possibile il dialogo.

Attraverso la conoscenza si attua lo scambio e nello scambio si produce qualcosa di nuovo e di migliore: si giunge in altre parole ad una riflessione più attenta e critica su se stessi ed il proprio sistema culturale di riferimento. Si scopre che esistono altre possibilità che non erano state previste e soprattutto altre espressioni ed altre scelte rispetto a vecchi modelli che nel tempo abbiamo "necrotizzato", non ritenendo potessero dar adito a risultati diversi.

Ecco perché molte delle nostre classificazioni, culturali in genere, giuridiche in particolare, risultano di scarsa utilità nella comprensione delle culture "altre": rapporti che noi, ad esempio, consideriamo privatistici sono per loro pubblicistici e viceversa; fenomeni che per noi rientrano esclusivamente nella sfera morale, altrove sono considerati giuridici. Non a caso una delle grande questioni tuttora irrisolte è quella inerente la necessità di una lingua franca, fruibile ugualmente da giuristi ed antropologi del diritto.

L'Antropologia del diritto ha rivisto anche la concezione datata che attribuisce l'etichetta di diritto consuetudinario a tutte le forme di diritto extraoccidentali. In realtà, tutto il diritto può essere definito consuetudinario: ovunque i costumi e le tradizioni di un popolo entrano in un certo qual modo nei processi e nei giudizi.

Oltretutto è doveroso affermare con decisione che quando si parla di tradizione non s'intende qualcosa d'antico ed immutabile: le consuetudini nel tempo hanno subito modifiche e variazioni, revisioni e rivisitazioni, e non solo in conseguenza all'incontro coloniale. Ogni cultura ha la possibilità di riformulare e negoziare sempre le proprie tradizioni.

b) Qualche osservazione sul concetto di tradizione[iii]

La tradizione è spesso un fattore trascurato, a volte male interpretato, di solito interessante solo per gli specialisti che studiano la cultura dei paesi non occidentali. Studiando tali paesi è, infatti, virtualmente impossibile ignorare il soggetto "tradizione".

La tradizione sembra essere ovunque - riti tradizionali, norme tradizionali, usi tradizionali, cibi tradizionali, mestieri tradizionali, passatempi tradizionali, leaders politici tradizionali - costretta a combattere con le forze globalizzanti della modernità.

Questa battaglia fra tradizione da una parte e modernità dall'altra si vorrebbe negare invece in occidente, dove pare che la modernità abbia preso il sopravvento anni fa. In realtà la tradizione non è affatto assente in occidente.

È un'errata credenza che tradizione e modernità siano opposte, e che dove regna l'una l'altra è automaticamente esclusa. Per questo gli occidentali, che si ritengono al vertice di una linea evolutiva di sviluppo, chiamano le società indigene "tradizionali". Si ritiene che gli elementi moderni siano solo quelli prodotti dall'Europa e dal Nordamerica: automobili, alta tecnologia, plastica.

In realtà gli antropologi del diritto affermano che tutte le società possono essere considerate "tradizionali". Bisogna, innanzi tutto, eliminare come al solito gli stereotipi: le società tradizionali non sono statiche o reazionarie. Ad esempio, il capo tradizionale di un certo villaggio delle Fiji oggi può godere di un numero diverso (maggiore o minore) di poteri e responsabilità rispetto a quelle di un capo di un secolo fa; egli inoltre potrebbe essere diventato capo in un modo differente e molte cerimonie cui egli prende parte potevano essere, nel passato, sconosciute.

Questo, che è solo uno dei tantissimi esempi presenti nelle varie culture, è la dimostrazione praticA che le tradizioni cambiano: esse sono un collegamento con il passato, ma devono cambiare per rimanere aperte. Il concetto di tradizione, cioè, non è antitetico rispetto al concetto di cambiamento. Tradizione non vuol dire fissa immobilità: forse è per questo che spesso al termine tradizione si coniuga una valenza sacrale. Perché la si considera fondata una volta per tutte, eterna nella sua perfezione.

In realtà la tradizione è qualcosa di molto vivo ed umano: essa è una forma di conoscenza circa le credenze e le pratiche delle società umane. Tale conoscenza particolare è condivisa sempre da un gruppo, non solo da pochi individui; è un patrimonio comune che si basa sul consenso generale e su una conseguente legittimazione.

La tradizione è, come abbiamo visto, una conoscenza del gruppo. Una generazione, in un certo periodo, ha deciso di adottare una tal pratica. La generazione successiva ha imparato questa pratica ma poi, da un'altra fonte, ne impara una alternativa che adempie lo stesso compito ma è, per qualche motivo, considerata preferibile. Si conoscono quindi ambedue le pratiche, ma s'inizia ad usare solamente quella nuova. La generazione successiva conoscerà esclusivamente la nuova pratica in uso e così imparerà solo questa.

Il nuovo ha rimpiazzato il vecchio. Con il tempo, la nuova pratica può assumere il titolo di "tradizione", perché le ultime generazioni presumono molto spesso che il modo in cui agiscono ora sia il modo in cui si è sempre operato. Ciò che un tempo fu un'alternativa, una novità, è diventata oggi tradizione.

Così anche le tradizioni, come le conoscenze personali, evolvono attraverso un processo di selezione. Ci piace pensare che le tradizioni giungano "illibate" direttamente dal passato: in realtà esse sono estremamente dinamiche, pur nello spirito della conservazione del valore in sé; debbono essere flessibili e aperte al cambiamento al fine di poter sempre adattarsi ai cambiamenti culturali, storici e ambientali.

È comprensibile, dal punto di vista umano, che molti individui che hanno abbracciato una tradizione da molto tempo e l'hanno resa parte della loro conoscenza si sentano personalmente minacciati se tale tradizione viene cambiata o abbandonata. Ci sarà sempre qualcuno che desidererà difendere la vecchia pratica contro la nuova per la ragione, del tutto razionale, che essa funziona ancora e non sarà quindi convinto che l'alternativa possa essere migliore.

Per quanto riguarda il discorso giuridico-politico, le tradizioni di riferimento sono una rilevante fonte di conflitti. Qualsiasi cambiamento che diventi materia di dibattito pubblico è condotto, infatti, attraverso il sistema giuridico-politico. Tale sistema deve poter rispondere alle pressioni per il cambiamento operanti su molte tradizioni. Se il sistema non riesce a sopportare il peso di tali pressioni, esso deve cambiare. Nessuna tradizione, mai, sarà immune dal cambiamento.

[i] Fabietti U. - Malighetti R. - Matera V., Dal tribale al globale, Mondadori, 2000.
Fabietti U. - Remotti F., Dizionario di Antropologia, Zanichelli, 1997.
Losano M.G., I grandi sistemi giuridici, Einaudi, 1988.
Motta R., Teorie del diritto primitivo. Un'introduzione all'antropologia giuridica, Unicopli, 1986.
Motta R., L'addomesticamento degli etnodiritti, Unicopli, 1994.
Negri A., Il giurista dell'area romanista di fronte all'etnologia giuridica, Giuffré, 1983.
Remotti F., Temi di antropologia giuridica, Giappichelli, 1982.
Rouland N., Antropologia giuridica, Giuffré, 1992.
Seymour Smith C., Dizionario di Antropologia, Sansoni, 1991
Tentori T., Il rischio della certezza, Studium, 1996.
[ii] Di mentalità primitiva parlò il filosofo francese Lucien Levy-Bruhl (1857-1939). Egli sostenne che tale mentalità fosse pre-logica poiché non sa distinguere la causa dall'effetto.
[iii] Ewins R., Some Effects of Tradition on Politics, Department of Political Science, Australian National University, 1996.


Ràça, ràsa, razza
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:55 pm

El dirito ente la vecia Mexopotamia

http://www.maat.it/livello2/leggi-sumere.htm

E' totalmente assente il concetto semitico di legge del taglione.

I Sumeri preferivano risarcire la vittima piuttosto che sottoporre il reo a mutilazioni o altre pene che non avrebbero dato alcun beneficio alla vittima, se non la soddisfazione della vendetta.
Il ladro era condannato a pagare il doppio di quanto aveva rubato.
L'autore di un furto in un frutteto era punito al pagamento di 10 sicli d'argento. Se veniva trovato a tagliare un albero la pena saliva a 30 sicli.
Se un uomo era trovato di giorno in mezzo alle messi veniva condannato a pagare 10 sicli. Di notte la pena diventava la morte.
Se un funzionario pubblico veniva in possesso di uno schiavo, di un asino o di un bue perduti, non li restituiva subito e li tratteneva presso di sé per oltre un mese veniva accusato di furto.


http://it.wikipedia.org/wiki/Codice_di_Hammurabi

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... rabi01.jpg

Łe fonti del dirito
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... YtbWs/edit
Immagine

Preghiere dell'uomo e comandi divini
viewtopic.php?f=24&t=483

Enuma elish (co’ l’alto sielo)
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... VvazQ/edit
Immagine
viewtopic.php?f=24&t=346
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:55 pm

Il diritto nella tradizione ebraica e in Israele
viewtopic.php?f=197&t=2572


Le leggi universali di Noè
https://it.wikipedia.org/wiki/Noachismo

Nell'ebraismo le sette leggi di Noè (in ebraico: שבע מצוות בני נח‎?, Sheva mitzvot B'nei Noach) sono una serie d'imperativi morali che sarebbero stati dati da Dio ai "figli di Noè" (e dunque a tutto il genere umano). Esse formano il sistema morale della tradizione ebraica denominato noachismo, che viene considerata dagli ebrei la religione naturale e più antica dell'umanità.[1]

Secondo la tradizione ebraica il mondo è bipartito in goyim e yehudim. Gli ebrei rappresentano il popolo "sacerdote" di YHWH davanti all'umanità, e, perciò, hanno più obblighi; inoltre devono conservare la tradizione noachica - oltre a quella ebraica - e spiegarla a chi lo desidera.[1][2]

Ognuno nell'ottica ebraica ha un suo compito di tikkun, perfezionamento nel mondo. Gli ebrei devono rispettare, come popolo nel loro complesso, 613 mitzvot, mentre i goyim ne devono rispettare sette.[1]

Queste sette leggi sono state date, secondo la tradizione ebraica, a Noè quando uscì dall'arca successivamente al Diluvio Universale. La fonte di queste sette leggi si trova nella Torah e la loro specificazione nel Talmud.[1]

Secondo la tradizione rabbinica il non ebreo che rispetti pienamente questi sette precetti è considerato un giusto tra le nazioni del mondo ed ha parte nell'olam habba, il mondo futuro.[1] Il Rambam ritiene necessario a tal fine che tali regole non siano rispettate per il solo fatto di averne raggiunto la loro consapevolezza per mezzo della ragione, ma che sia anche necessario che si creda che esse sono state date da Dio a Mosè nel Sinai.

L'ebraismo consente comunque la conversione, il ghiur, e dunque il non ebreo che volesse rispettare tutte le mitzvot della Torah può sempre farlo convertendosi all'ebraismo. L'ebraismo però, pur permettendo la conversione, non fa attivamente opera di proselitismo, ed anzi chi cerca di convertirsi viene dapprima dissuaso dal far ciò, facendogli notare che egli, rispettando solo sette leggi, può essere una persona giusta e meritoria del mondo futuro: gli si fa notare ad esempio che se prima mangiava maiale non era una colpa, mentre se ora mangiasse maiale sarebbe considerato un peccato.

Stipulata da Dio con Noè un'alleanza cosmica, in ebraico B'rith 'Olam (ברית עולם), l'"alleanza noachica" si compone dei 7 precetti così enunciati:

credere nell'unicità di Dio;
non uccidere né suicidarsi: "Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo" (Gen 9,6: fondamento della "legge del taglione", nell'esegesi ebraica con ciò intendendo il risarcimento pecuniario);
non rubare e/o non rapire;
non compiere le relazioni sessuali illecite non ammesse dalla Torah (omosessualità, incesto, zooerastia, stupro);
non bestemmiare, non commettere idolatria;
divieto di mangiare parti del corpo di animali ancora vivi;
istituire tribunali giusti (distinguendo quindi tra testimonianza vera, falsa testimonianza nonché Lashon hara, ovvero "maldicenza", esaminando però i vari casi).


Le leggi di Mosè
http://www.padrepio.catholicwebservices ... amenti.htm

En lenoga veneta
Mi a so el to Sehnor e el to Dio

No te ghe n’avarè altri fora ke mi
No sta nomarme par gnente
Soviente de far sante łe feste
Onora to mare e to pare
No sta copar
No sta far çesti scostoumà
No sta robar
No sta dir buxie o bàle e testemognar el falbo
No sta ver voja par ła dona de łi altri
No sta ver voja par ła roba de łi altri


In lingua italiana
Io sono il Signore Dio Tuo:

Non avrai altro Dio fuori di me
Non nominare il nome di Dio invano
Ricordati di santificare le feste
Onora il Padre e la Madre
Non uccidere
Non commettere atti impuri
Non rubare
Non dire falsa testimonianza
Non desiderare la donna d'altri
Non desiderare la roba d'altri
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:56 pm

Diritto egiziano

Maat
https://it.wikipedia.org/wiki/Maat
Maat era l'antico concetto egizio della verità, dell'equilibrio, dell'ordine, dell'armonia, della legge, della moralità e della giustizia. Era inoltre personificata come una dea antropomorfa, con una piuma in capo, responsabile della disposizione naturale delle costellazioni, delle stagioni, delle azioni umane così come di quelle delle divinità, nonché propagatrice dell'ordine cosmico contro il caos. La sua antitesi teologica era Isfet.
Mandata nel mondo suo padre, il dio-sole Ra, perché allontanasse sempre il caos, Maat aveva anche un ruolo primario nella pesatura delle anime (o pesatura del cuore) che avveniva nel Duat, l'oltretomba egizio. La sua piuma era la misura che determinava se l'anima (che si credeva residente nel cuore) del defunto avrebbe raggiunto l'aldilà o meno.


Giudici e tribunali
http://www.sapere.it/sapere/approfondim ... ubali.html

In Egitto l'organizzazione giudiziaria era rigida. È stato trovato un solo codice, ma sembra che la legislazione fosse molto chiara e precisa e formasse un corpo giuridico.

Lo studio delle leggi e della loro applicazione permette di conoscere il grado di sviluppo di una società. In Egitto la legge aveva alla base il concetto di maat. Il faraone dettava le leggi come espressione dell'ideale di giustizia; fissava ed estendeva le regole dell'organizzazione cosmica, che erano state messe in pratica nella creazione. Senza dubbio, insieme alle vecchie norme dettate dagli dei o da antichi re, i decreti, le concessioni di privilegi e le sentenze giudiziarie formavano il corpo giuridico. Non si può parlare di legislazione in senso stretto, ma si trattava di un diritto pratico: si decideva su ciascun caso nuovo, senza attenersi necessariamente al diritto antico applicato. In tal modo le leggi continuavano a essere applicabili finché non fossero state modificate da una decisione del re; il faraone poteva prendere risoluzioni in contrasto con la legislazione ma non con l'idea di maat. Sfortunatamente sono scarsi i documenti sull'applicazione delle leggi. Maat era anche la dea della giustizia. Questa dea personifica la legge e l'ordine esistenti, l'armonia, la giustizia e la verità nel pantheon egizio e nella società umana. Porta una piuma di struzzo sul capo, che la rappresenta nella scrittura geroglifica. Fu nota come figlia di Ra. Nel Libro dei Morti è presente nel giudizio dell'anima, quando il cuore del defunto viene pesato per decidere se possa entrare nell'aldilà. Maat era la protettrice dei giudici e la sua effigie presiedeva i giudizi. Fu venerata nel tempio di Montu, a Karnak, e in molti centri dedicati ad altri dei. Il maat appartiene al faraone. Tutto ciò che svolge una funzione giudiziaria, a qualsiasi livello, può farlo in quanto possiede un maat specifico derivante da quello originario. Il visir e gli scribi sono, in diverso grado, sacerdoti e custodi di Maat. Il faraone manteneva il maat in Egitto. Era questo il suo compito principale, poiché assicurava lo stato di ordine divino e la giustizia; doveva governare secondo verità, prevenendo la lotta e le difficoltà e conservando il ritmo della natura. Doveva compiere i riti divini in ogni tempio, offrendo incenso al dio e presentando la figura di Maat per simboleggiare l'ordine del regno. Maat è l'offerta fatta a tutti gli dei per eccellenza, poiché di essa si alimentano. In molti templi vi è un bassorilievo con la sua rappresentazione; la scena simboleggia il dialogo permanente tra gli uomini e la divinità.

Le sentenze venivano emesse essenzialmente dal faraone. Qualsiasi faccenda poteva essere portata a sua conoscenza. Lo seguiva il visir, intermediario tra il faraone e gli organi di governo; insieme al re, egli era il giudice supremo del paese, ma aiutato da tutta un'amministrazione giudiziaria che si sviluppò nel corso del tempo. Durante la V dinastia (2494-2345 a.C.) esistevano sei tribunali, chiamati "dimore venerabili", con alti funzionari come giudici e personale ausiliario. Anche i governatori delle province esercitavano funzioni giudiziarie. Nel Nuovo Regno (1552-1069 a.C.) vi erano tribunali locali, composti dai notabili, il cui compito consisteva nello svolgimento di indagini nel luogo in cui sorgeva la lite. Possediamo poche informazioni sul procedimento giuridico, ma sappiamo che attori e convenuti si difendevano da soli e le decisioni si basavano su prove documentali, supportate da testimonianze. Per i crimini, le udienze cominciavano con l'interrogatorio degli imputati; si ricorreva persino alla tortura. Se venivano ritenuti colpevoli, si rimetteva il caso al faraone, affinché decidesse la pena. Nel Nuovo Regno gli attori poterono ricorrere agli oracoli, chiedendo giustizia alla statua di un re o di un dio, durante le festività religiose.

Il visir indossava lunghe vesti, annodate con una corda sotto al petto come primo segno che lo identificava e gli conferiva l'aspetto di uomo importante e rispettabile. Altro emblema era la figura della dea Maat, che portava sul petto a rappresentare la sua funzione principale di far regnare l'ordine morale, la verità e la giustizia. Era giudice supremo, incorruttibile, che puniva chi mentiva e accontentava tutti. Doveva essere buono con tutti, cosa che gli assicurava l'approvazione dei saggi. Talvolta il visir non aveva il potere di pronunciare una sentenza, come nel caso di crimini o furti nella necropoli reale; in tal caso decideva il faraone, sulla base delle indagini svolte da una commissione composta dal visir e da alti funzionari, che comunicava le sue conclusioni per iscritto. Il procedimento veniva poi rimesso al faraone, che deliberava con il suo consiglio privato, di cui il visir era membro aggiunto. Ogni caso veniva giudicato separatamente e veniva imposta la pena adeguata. Esistevano anche tribunali locali, nei quali il visir inviava un funzionario per le decisioni particolari. Egli ascoltava le testimonianze sul posto e, insieme al tribunale, emetteva il giudizio, dettava la sentenza e inviava le parti essenziali all'ufficio del visir, dove venivano conservate. I tribunali locali non erano di prima istanza, ma ausiliari della giustizia reale. Durante il Nuovo Regno, la corte di giustizia, o Grande Casa, veniva convocata dal visir davanti alla porta del tempio, vicino alla grande porta con piloni; essa era nota come il luogo di giustizia del faraone e alcuni poeti la chiamarono "porta del dire la verità".

I documenti giuridici risalgono a periodi più recenti: sono papiri scritti principalmente in demotico o direttamente in greco. Da essi si deduce che vi era un concetto chiaro di proprietà privata, trasmissibile per eredità o tra vivi, come vendita o donazione. Esisteva uguaglianza giuridica tra marito e moglie, che potevano pattuire contratti matrimoniali e mettere in atto legati o locazioni. Si procedeva inoltre alla registrazione dei contratti. Non era sconosciuto il diritto internazionale. Anche gli dei avevano le loro divergenze per conflitti di interesse, che si accompagnavano a scontri giudiziari. Thot li convocava in assemblea: in caso di conflitto, il demiurgo chiedeva l'opinione di tutti e si svolgeva il processo. Queste riunioni facevano le veci del tribunale, presieduto dal demiurgo e in cui il dio Thot fungeva da giudice, arbitro e cancelliere. Le querele o atti d'accusa si comunicavano a Ra, che decideva se rimetterle o meno. Nessuna divinità era immune da rimproveri e denunce. Thot elencava i capi d'accusa davanti alle divinità, che potevano essere allo stesso tempo giudici, giurati e testimoni.

Le 42 confessioni negative (dal Papiro di Ani)
https://it.wikipedia.org/wiki/Maat

Non ho commesso peccato.
Non ho commesso furti con violenza.
Non ho rubato.
Non ho ucciso né uomini né donne.
Non ho rubato grano.
Non ho sottratto offerte.
Non ho rubato le proprietà degli dei.
Non ho mentito.
Non ho sottratto cibo.
Non ho proferito maledizioni.
Non ho commesso adulterio, non ho giaciuto con uomini.
Non ho fatto piangere nessuno.
Non ho mangiato il cuore [cioè Non ho rattristato inutilmente, Non ho provato rimorsi].
Non ho attaccato alcun uomo.
Non sono un ingannatore.
Non ho rubato terra coltivata.
Non ho spiato.
Non ho calunniato.
Non mi sono adirato senza ragione.
Non ho corrotto la moglie di nessuno.
Non ho corrotto la moglie di nessuno. (Ripete l'affermazione precedente, ma rivolto a un altro dio.)
Non mi sono contaminato.
Non ho terrorizzato nessuno.
Non ho trasgredito la legge.
Non sono stato iroso.
Non ho chiuso le mie orecchie alle parole della verità.
Non ho bestemmiato.
Non sono un uomo violento.
Non sono un agitatore di contese (o un disturbatore della pace.)
Non ho agito (o giudicato) frettolosamente.
Non ho curiosato nelle varie questioni.
Non ho moltiplicato le mie parole nel parlare.
Non ho fatto torti, né ho fatto il male.
Non ho compiuto sortilegi contro il Re, né proferito blasfemie contro il Re.
Non ho fermato [il corso del]l'acqua.
Non ho alzato il tono della mia voce (parlando con arroganza, o con ira).
Non ho bestemmiato il Dio.
Non ho agito con ira malefica.
Non ho rubato il pane degli dei.
Non ho sottratto alle anime dei morti le torte khenfu.
Non ho strappato il pane al bambino, né trattato con disprezzo il Dio della mia città.
Non ho abbattuto la mandria appartenente al Dio.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:56 pm

Il diritto venetico


Ła pì longa eiscrision en łengoa venetega catà a Este
viewtopic.php?f=84&t=918

Venetego a Este, la pì longa iscrision
https://picasaweb.google.com/pilpotis/V ... aIscrision

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 180250.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 180243.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... 180236.jpg


Ła pi łonga eiscrision venetega (catà a Este)
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... h3bXc/edit


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1) |om kude diaritores vagsont-|--(--)/----------------------------(-----)/---(--)|imois doti-|--(--)|e : neibar o-|
2) |-oregnos ekvo|i|bos moltevebos eivido : X : verdeos diaritorbos danei v|-|-at ta plana m|
3) |etai(i)on valgam to om(m)ni opedon: elokvillos doukai perikon vonin komproivos|
4) |imer kedat—(-)|-|-utei dekomei diei kvan venev|?|is pai verokenon/
5) |preker eś d|----(--)| moltevebos eipoi krivinea: | : dia|
6) |s doti ke lud|----(-)|/-(-)nita|/--(-)|ok—kermen ośon mol|


1) |om kude diaritores vagsont-|--(--)/----------------------------(-----)/---(--)|imois doti-|--(--)|e : neibar o-|
2) |-oregnos ekvo|i|bos moltevebos eivido : X : verdeos diaritorbos danei v|-|-at ta plana m|
3) |etai(i)on valgam to om(m)ni opedon: elokvillos doukai perikon vonin komproivos|
4) |imer kedat—(-)|-|-utei dekomei diei kvan venev|?|is pai verokenon/
5) |preker eś d|----(--)| moltevebos eipoi krivinea: | : dia|ritorbos
6) imoi|s doti ke lud|----(-)|/-(-)nita|/--(-)|ok—kermen ośon mol|tevebos




Comun, Arengo, Concio, Mexoevo, Istitusion
viewtopic.php?f=172&t=273


Kisà se tra el potestà/podestà mexoeval e el pilpotis venetego ghè on ligo.

http://books.google.it/books/about/Dal_ ... edir_esc=y

Eiscrision venetega:
(Pava 9 -so' on sàso)
-pilpoϑe.i.kuprikoniio.i.
pilpote.i. kuprikoniio.i.


??? Da I Veneti Antichi de Fogolari e Proxdoçimi (da le pagine sol lesego venetego)
pilpotei (dat.) < *pili-pot- (Pa 9) `signore della ‘*p°li-’ è nella posizione di nome individuale e, mentre può essere oculatamente utilizzato per una presenza di ie. *p°li ‘πόλις’ sull’asse genetico del venetico, non può essere invocato quale termine funzionale nella terminologia civica, tipo sscr. viçpati, dampati, lituano viespatis etc. (cfr. Benveniste 1969 ‘Voc.’ I pp. 88-89, 295-296). ???

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... is-526.jpg

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... os-122.jpg

Entro, drentro, rento, intro, entel, intel, entol
viewtopic.php?f=85&t=286

Teuters, teuta, touta, totam, touto, toutatis, tuath, teutoni, tote, tutore, ...
viewtopic.php?f=87&t=140
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... FXREE/edit
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:56 pm

Diritto celtico


Gałi e çelti
viewtopic.php?f=134&t=520
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Preistoria e storia del diritto, fonti varie

Messaggioda Berto » lun mar 06, 2017 8:56 pm

Diritto etrusco


Apports des Étrusques aux Romains
http://fr.wikipedia.org/wiki/Apports_de ... ux_Romains


Tria nomina, un sistema di origine etrusca/b]
http://fr.wikipedia.org/wiki/Noms_romains
Le nom romain se particularise par l'usage de trois noms ([b]tria nomina, un système d'origine étrusque
), en usage chez les patriciens, puis chez les plébéiens, au fur et à mesure que, sous la République romaine, ils acquièrent des droits. L'onomastique romaine se base sur plusieurs sources : l'étude des pierres tombales, les sources littéraires, et l'ensemble de l'épigraphie.

La toga
http://fr.wikipedia.org/wiki/Toge
La toge (du latin toga) est le vêtement des citoyens de la Rome antique, de mode étrusque, descendant de l'himation grecque ; elle s'est diffusée à l'aristocratie du monde latinisé, jusqu'en Égypte. C'est avant tout un costume d'apparat qui nécessite l'aide d'esclaves pour être drapée, tant l'ajustement est compliqué et malaisé. La différence essentielle entre l'himation grec et la toge romaine consiste dans la forme donnée à la pièce de drap qui la constitue : celle-ci est taillée en demi-cercle, tandis que l'himation est taillé en carré. Le diamètre de la toge est d'environ 6,50 m sur 2,50 m. Les historiens des mentalités pensent que la toge, n'étant maintenue que par des plis, devait obliger celui qui la portait à adopter une certaine tenue et une certaine marche, étant donné qu'au moindre mouvement brusque ou désordonné on risquait de la perdre.

Mitologia etrusca
http://it.wikipedia.org/wiki/Mitologia_etrusca
http://fr.wikipedia.org/wiki/Mythologie_%C3%A9trusque

La prima tesi sugli Etruschi all'Università di Stoccolma
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... V0Vms/edit

Le çità e li canpi militari etruski: enpianto a croxe o ortogonal
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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... deleit.gif

Dansa e spasio sagri de li etruski e de li shamani
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... YxekU/edit
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Spirtoaƚetà da ƚa pristoria, shamaneixmo e coxmołoja shamana
viewtopic.php?f=24&t=19

Mascare shamane, vesti o paramenti e armamentari sagri
viewtopic.php?f=24&t=1439
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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