Falbasion de l'edentetà

Falbasion de l'edentetà

Messaggioda Berto » dom mar 23, 2014 12:16 pm

El caxo del fiol de na ebrea arxentina fata sparir co li voli de la morte so l'oçean Atlantego.

...
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Falbasion de l'edentetà

Messaggioda Berto » dom mar 23, 2014 12:17 pm

El caxo de li prexogneri japonexi ...
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Re: Falbasion de l'edentetà

Messaggioda Berto » dom mar 23, 2014 12:18 pm

El caxo dei veneti cresesti come se li fuse fioli de romani e latini.

Ła storia dei veneti ke ne conta ła Tałia ente łe so scołe

viewtopic.php?f=148&t=639

Veneti coki de łi romani
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... Q4NnM/edit

Immagine
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... er=1&w=800

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ROMANI.jpg
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Re: Falbasion de l'edentetà : 18 àni

Messaggioda Sixara » gio apr 10, 2014 8:23 am

Dixdotàni butà xo te l Oceano : el caxo de Franca Jarach (1957- 1976)

Franca Jarach la jèra na ragàsa arjentina de dixdòto àni, fiola de Vera Vigevano e Giorgio Jarach, ebrei ca jera scapà n Arjentina da Milano e Trieste par via de la persecuzion ratsiale. I se jera conosesti n Arjentina : lu on injegnere, ela na jornalista ke la scrivea de cultura pa l Ansa de Buenos Aires. Franca la nàse intornovia del Nadale del !957 e la crese te na fameja piena de stimoli culturali, vitalità e intarèsi : la studia muxica, la scrive de poexia, la coltiva la so ànema de xovane dòna inpegnà.
" Franca è troppo brava" si sente dire un giorno suo padre, convocato d'urgenza dal professore di matematica. " Però in classe mi crea qualche problema, perché finisce il compito molto prima degli altri e comincia ad aiutare i compagni".
" Non sarò io a dirle di non farlo" rispose senza esitare Giorgio Jarach " visto che in casa le abbiamo sempre insegnato ad aiutare gli altri. Se vuole, le dica di uscire quando ha finito il compito."
So la so formazion inteletuale e morale on pexo inportante lo ga la storia de la so fameja : somama ke a dièxe ani i la pàra via da scola, a Milano, parké l è ebrea; sonòno deportà e morto a Auschwitz tel '43. La lexe P.Levi n italian, lengoa ke in fameja i continuarà parlare. Co i jenitori la farà de i viaji pa l America Latina : "In Messico, Guatemala, Honduras avrà modo di osservare con i suoi occhi il ventre sanguinante del continente latinoamericano, le terribili ingiustizie sociali, la povertà e la disperazione dei suoi abitanti."
Da ogni un de sti viaji la tornava indrio senpre de pì convinta ca bixognese inpegnarse pa la justizia, l ugualianza, la democrazia.
Ne la ga gnancora sedexàni co la televixion la ghe xbate sol muxo la trajedia del Cile tel '73 e podopo ghe toca caxa-soa col colpo de stato de Videla.
Franca, asieme co altri so conpagni de studio al Colegio Nacional, la continua fare cueo ke la faxea prima del golpe ma
" Adesso le petizioni, le assemblee, i volantinaggi, le manifestazioni, i corsi di alfabetizzazione per i bambini dei villaggi e delle aree degradate di Buenos Aires non sono più semplici iniziative politiche ma diventano veri e propri atti di resistenza nonviolenta al terrorismo di Stato."
No la ghe credea te la rexistenza armà de i montoneros, la pensava ke solo co l educazion se podea darghe batalia a l rejme. La pensava de èsare al sicuro : se savea ke i portava via i guerriglieri - i soversivi, come ke i li ciamava - ma nò la zente normale : i sindacalisti, i profesori, i inteletuali, i studenti. Tanti studenti: na targa al Colegio Nacional la ghe ne ricorda 105.

" Quel giorno, quel maledetto venerdì 25 giugno, è iniziato l'autunno ma non fa ancora freddo (...) Franca è rimasta in città per incontrarsi con alcuni amici al bar Exedra ... uno dei luoghi preferiti dalla gioventù della capitale. Prima di perdere la libertà per sempre, ha tempo di fare un'ultima telefonata al fidanzato. (...) Poi si saprà soltanto dell'auto arrivata all'improvviso, degli uomini che hanno fatto irruzione nel bar e l'hanno sequestrata insieme a quattro amici fra urla, minacce e pistole puntate alla tempia."

La dixe somàma ke a gà tocà spetare fina l 2000 pa savere la verità so i oltimi jorni de sofiòla co na testimone, Marta Alvarez, soravivesta ai canpi de concentramento del rejme, la ga podesto contarghe calcòsa :

" Non voleva ricordare, aveva visto cose orribili e voleva rimuovere tutto. Ho aspettato un anno prima che si decidesse a parlarmi. Quando le ho chiesto se avessero torturato mia figlia, non ha risposto. Poi mi ha detto che la prigionia di Franca è durata pochissimo. Appena un mese dopo l'arresto fu eliminata insieme ad alcuni compagni per far posto ai nuovi arrivati nelle stanze di tortura."

R.Michelucci, " Diciotto anni gettati nell'oceano Franca Jarach (1957-1976)", L'eredità di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà, Odoya ed., 2013,pp.69-86.

Un abbraccio dopo vent'anni : cusì Vera la vien savere la verità so sofiòla.
http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=50449
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Re: Falbasion de l'edentetà

Messaggioda Berto » ven mag 09, 2014 8:04 pm

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Re: Falbasion de l'edentetà: Guido el càta la so vera nòna

Messaggioda Sixara » gio ago 07, 2014 2:33 pm

Dopo 36 àni Estela de Carlotto la càta so neodo Guido ke i lo ghea dà n adosion dopo l asasìnio de so fiola Laura :
http://mattinopadova.gelocal.it/cronaca/2014/08/07/news/guido-il-nipote-ritrovato-1.9724064

El neonato, portà via da so-màma 'pena ke la lo ghea partorìo, el jèra stà adotà da on contadìn e l ghea ciapà el nome de Ignacio Hurban. Dèso, Guido Carlòto, l è deventà on muxicista.
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Re: Falbasion de l'edentetà

Messaggioda Berto » gio nov 20, 2014 9:37 pm

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Re: Falbasion de l'edentetà

Messaggioda Berto » mer dic 03, 2014 11:08 pm

Coante ensemense ke li scrive sti pori veneti envaxà e alienà da la Talia:


BESTIARIO VENETO PAROLE MATE . data:[13-03-1999] autore:[Renzo M. Grosselli]

L’Adige – Dal dialetto alla patria. Dell’uomo
Marco Paolini: un “Bestiario” poco Serenissimo

Tra vernacolo e comunità più ampia. “Intellettuali, nuovo impegno contro la globalizzazione”

Il vernacolo come legame alle cose e alla nostra storia. Ma poi un sentire più ampio: il Paese, forse, ma soprattutto l’umanità

E il Veneto alienato della industria diffusa. “La tentazione di chiamarti fuori”. Ma le domande: “Dove semo? De chi situ”

“L’idioma è la base verbale per cui l’uomo riconosce se stesso, trovarsi dentro un idioma vuol dire trovarsi dentro il proprio io, self”. E poi: “Avere un idioma significa conservare il senso di un’identità che però non creda di sopravvivere distruggendo le altre identità, se no si scivola nell’idiozia più totale, nella distruttività totale che è quella delle cosiddette pulizie etniche”. Insomma, il dialetto è stato ed è per decine di milioni di italiani il modo stesso di essere e di vivere nella storia. Ma questo riconoscimento che porta ad una riscoperta, forte, delle radici, non rifiuta affatto una identità più ampia che, se alla fine sconfina nell’umanità, in questo 1999 e qui, può almeno confluire nella riscoperta di una terra comune. La chiameremo Italia. Potremo chiamarla patria?

Le parole virgolettate riportate sopra sono di Andrea Zanzotto, frutto di una intervista riportata in uno dei libri più intriganti scritti negli ultimi tempi: “Bestiario veneto. Parole mate” di Marco Paolini (con contributi di Daniela Basso e Carlo Cavriani), Edizioni Biblioteca dell’Immagine, lire 20.000. Marco Paolini, “attore e narratore” bellunese (come ama definirsi) che aveva già messo in scena e poi sulla pagina “Racconto del Vajont” e “Il Milione”. Marco Paolini, quell’attore che racconta storie assolutamente non fantastiche, anzi, che ha riportato il teatro all’impegno civile, a porsi coscienza attiva della comunità.

L’intervista a Zanzotto
Ora il nuovo libro. Una serie di annotazioni sul Veneto della rivoluzione industriale. Ma anche una profonda riflessione che, partendo dal dialetto e dalle radici regionali, riscopre la necessità di riconoscersi in una comunità più ampia. Nel libro il lettore troverà pagine di poesia, dialettale e non, di Marin, Zanzotto, Noventa, Calzavara. E una lunga intervista con lo stesso Andrea Zanzotto e continui riferimenti all’altro “immenso” della letteratura moderna italiana, Luigi Meneghello. Tutta gente che è partita dalle radici, dal dialetto (non solo le poesie di Marin e Calzavara ma il più bel libro italiano degli ultimi cinquant’anni, “Libera nos a malo” di Meneghello) ma che non si è fatta chiudere nell’angolo del particolarismo dalla sua ricerca, dal suo affetto per le radici. Che ha allargato lo sguardo. Meneghello, ad esempio, partecipò alla Resistenza (ecco il libro, ora film, “Piccoli maestri”) e ci ha lasciato le pagine più caustiche ma anche nostalgiche, di certa cultura scolastica italiana (“Fiori italiani”).
Ma è anche dell’altro il libro di Paolini. Una riproposta dell’impegno dell’intellettuale a cambiare la società. Ecco allora, tra l’altro, quelle interviste a fine libro ad immigrati che lavorano in Veneto, o a operai veneti. E lo scoppiare, sulla pagina, dello sfruttamento dell’industria globalizzata, della perdita di senso di una vita votata alla produzione, del dolore lancinante dell’uomo costretto alla macchina (ma anche alle mani del padrone sul culo se si tratta di operaie belle) ed alla alienazione a suo tempo raccontata da Marx, dalla Scuola di Francoforte e da Robert Blauner.

Il dialetto è la base di partenza del nuovo libro di Paolini. Ma un dialetto che si interroga: “Ma dove semo cuà? Ma de chi situ ti?”. Lingua che va rapida: frasi brevi, spesso sempre un solo verbo. Come il suo teatro: a scatti, a volte rabbiosi, a volte di sogno. Il Veneto iperindustrializzato è raccontato con l’ironia dolorosissima di Paolini: “Una volta di qua e di là del Piave ci stava solo un’osteria. Adesso ci sono i più forti distretti d’Europa”. Abitati dalla gente più produttiva d’Europa: Io non le trovo le parole per parlare con questi della mia gente, questi che “Londra bisogna andarghe se no ti si un ebete”, questi che incassetta tacchini eviscerati, che monta il pannolino al motocompressore del frigo per l’imballaggio; questi che ha la ditta istallatrice con esperienza decennale che fornisce in opera caldaie murali a tiraggio forzato e camera stagna indipendentemente dal sanitario che è modulante. Poi tutti insieme salgono sulla Pontebbana a cacciare la donna nera o dell’est”. Parlano il dialetto. Certo. E sono lavoratori. Certo. Ma “tra Bassano del Grappa e Pordenone ci sono le sette sataniche, solo a Torino e Roma ce ne sono di più e tra il Montello e Mestre è cresciuto il fiore della meglio gioventù stragista di questo dopoguerra”.

Le radici, il dialetto. Paolini lo usa, a tratti, sulla pagina e in teatro. “Non ho nostalgia, però un po’ paura di aver disimparato qualcosa di importante”. Almeno una intera generazione che ha scalato la modernità in frettissima, ha perso il dialetto, le radici. Ma ha perso per strada anche il senso della vita, dell’impegno nella vita. E Paolini si ferma, torna indietro. Come avevano fatto Meneghello, Zanzotto: “Le parole sono qualcosa di diverso dai concetti, le parole sono le cose, mi serve una lingua per raccontare le cose, ‘un parlar fondo come un basar’. Il dialetto è incavicchiato alla realtà, è uno strato fondo, chi ce l’ha quando tocca certe parole sente un lampo ‘sgiantìzo’. È qualcosa che è difficile da spiegare a chi non ha il dialetto”. E tutti noi, ai nostri figli, non abbiamo insegnato il dialetto. E nemmeno l’impegno sociale dopo che ci siamo ritirati nel privato.

Noventa: “Serché più in là”
Allora il sublime suggerimento del poeta Noventa: “Ma la parola che pur me resta/ché, sugerirve: çerché più in là”.
Veneto. “Strade morte, palazzi interi vuoti, case vuote. I centri storici del Veneto tavernicolo diventeranno uno ‘zoocity’ per passeggiare la domenica. Niente lenzuola stese ad asciugare, niente fiori, niente bambini”. E il centro di Trento? - diciamo noi - non è morto già da 20 anni? E di bambini qui non se ne vedono più e nemmeno donne gravide. C’è altro da fare, in Veneto e in Trentino: “C’è droga nell’aria, non so se è il lavoro o l’‘extasi’. Come faranno i veneti a stare in pi, 12 ore, a lavorare più dei Giapponesi? Semplice, passa due giorni durissimi ma sobri. A tirar tardi in discoteca sabato e domenica. Il lunedì mattina ‘els-inpastica’ fino al venerdì pomeriggio, sballa sul lavoro, produce il doppio ed è felice”.

Ma è di Veneto che parla Marco Paolini? “Potrei parlare anche di Emilia, di Marche o di Campania, di Piemonte o di Toscana...comunque le ‘mie parti’ sono di chi ci vuole venire e non solo di chi ci è nato”. Il riferimento può essere anche più preciso: “La memoria di cui mi occupavo era una memoria collettiva, in buona parte perduta da un paese che allegramente canta in coro: ‘Chi ha avuto avuto avuto, chi ha dato dato, scordiamoci il passato’”. C’è un “io comunitario” dietro la ricerca di Paolini e della miglior ‘inteligentsjia’ veneta. Forse di più, qualcosa che assomiglia alla voglia di ritrovarsi a far parte di un Paese. L’Italia, il Paese in cui il concetto di patria è stato secolarmente contrastato dalla potenza della Chiesa che ha sopportato lo Stato, dall’internazionalismo marxista che nello Stato vedeva una costruzione borghese. Quindi dal fascismo che cianciava di Patria e gettava il Paese nell’abisso. Infine la Lega che dietro al dialetto e al principio di sussidiarietà ha celato gli interessi di quei ceti economici che lo Stato lo misconoscono per non dover pagare le tasse.

“E ti viene la tentazione di chiamarti fuori. No, col cavolo, io non mi chiamo fuori: questa è la mia città”. E per non chiamarsi fuori Marco Paolini aggiunge al suo Bestiario una splendida intervista a Zanzotto che parla di “una ulteriore guerra mondiale che riguarda l’opera di omologazione gestita dal capitale finanziario, ma non solo da questo, e che inserita nel mito della globalizzazione, devasta a casaccio il mondo per creare nuovi consumatori i quali consumano anche se stessi”. Poi le interviste agli operai che parlano della loro Caienna. Per dire che è ora che un paio di generazioni escano da quel “privato” in cui si erano rinchiuse.

La domanda ora viene in dialetto trentino: ‘Ma n’do sente qua? Ma de chi set ti?’.
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Re: Falbasion de l'edentetà

Messaggioda Berto » mer dic 03, 2014 11:10 pm

On bon omo, on somexo par tuti, cusí se dovaria rajonar in te ‘l respeto de i diriti naturałi.

Łetara al Jornałe de Viçensa de oncò, 25-02-2006

ARABO E D’INTORNI

«Ecco la mia esperienza con le "lingue " straniere»

Prendendo spunto dalle considerazioni di David Cei in merito all'insegnamento della lingua araba nelle scuole elementari, pubblicate nell'edizione del 14 febbraio, vorrei anch'io esprimere il mio modesto pensiero. Poiché ritengo non sia compito delle istituzioni, troppo spesso delegate a compiti non pertinenti, bensì dei genitori, mantenere vive nei figli la lingua e la cultura dei Paesi d'origine, vorrei esporre la mia personale esperienza di integrazione, se cosí posso definirla, per certi aspetti applicabile anche ai bambini immigrati.
Avevo soltanto sei anni allorché la mia famiglia si trasferì a Vicenza dalla Sardegna, in tempi quando i "foresti" (non dico stranieri immigrati) erano visti e considerati come delle vere mosche bianche, tanto per usare un eufemismo. Ricordo che i miei genitori (mia madre in particolare), oltre che parlarmi in italiano, mi rivolgevano spesso la parola in sardo, raccontandomi di luoghi e fatti della nostra isola. Nel contempo, la frequentaziuone dei miei coetanei mi permetteva un rapido apprendimento del vicentino (quello vero, non quello italianizzato dei nostri giorni), tant'è che oggi potrei insegnarlo, senza presunzione, a molti vicentini stessi; parimenti, conosco il sardo tanto da capirlo e parlarlo nelle sue principali varianti.
Tutto ciò, unitamente alla mia buona disposizione, mi ha consentito una facile integrazione nella realtà riservatami dalla sorte e di sentirmi così a mio agio in terra vicentina, dove ho trascorso quasi tutta la mia giovinezza e il resto dei miei anni, felicemente condivisi con la mia amatissima donna veneta, e dove sono nati i miei figli e nipoti, senza, peraltro, ch'io mai dimenticassi la terra d'origine, anche se ormai, attesa l'età non più giovane, la bussola della mia vita indica irreversibilmente "Veneto", per sempre.


Gesuino Siddi Monticello Conte Otto
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