Wieviel Heimat?

Wieviel Heimat?

Messaggioda Sixara » sab feb 13, 2016 1:35 pm

Wiefiel Heimat?
viewtopic.php?f=103&t=2214


Ein Fremder hat immer
Seine Heimat im Arm
Wie eine Waise
Für die er vielleicht nichts
Als ein Grab sucht


Nelly Sachs

http://www.fabula.org/colloques/document1987.php

http://www.inventati.org/apm/abolizionismo/amery/xamery.pdf



Di quanta patria ha bisogno un uomo?
Si chiede Améry in uno dei capitoli più dolorosi del suo libro Intellettuale ad Auschwitz:
" Perché l'uomo ha bisogno di Heimat. Di quanta? E' una domanda fasulla, s'intende, utile solo a intitolare un capitolo e forse nemmeno la più indovinata. Il bisogno di Heimat dell'uomo non è quantificabile. (...) Pensiamo a Nietzsche, alle sue cornacchie che gridano e tra un frullo d'ali a stormo volano alla città, e alla neve invernale che minaccia il solitario. Weh dem, der keine Heimat hat!, dice la poesia. Non si vuole apparire troppo esaltati, e si rimuovono le reminiscenze liriche. Resta la più banale delle constatazioni : non è bene non avere una Heimat." J.Améry,cit.p.109

Parole : Heimweh è la nostalgia, Heimat è la patria ma è diversa dal concetto di Vaterland. Sprache è la lingua.
Améry ha cercato di ricostruire e comprendere che cosa abbia significato per loro, esuli dal Terzo Reich, la perdita della Heimat e della Sprache, la lingua madre.

Cosa intende l'autore per Heimat?
" La Heimat è sicurezza. Nella Heimat dominiamo perfettamente la dialettica fra il conoscere e il riconoscere, fra attesa fiduciosa e attesa assoluta: poiché la conosciamo, la riconosciamo e ci fidiamo a parlare e ad agire, perché possiamo avere ragionevolmente fiducia nella nostra capacità di conoscenza-riconoscimento. Il campo semantico dei termini affini ( fedele,fidarsi,fiducia, affidare, confidenziale,fiducioso) si riallaccia alla sfera psicologica del 'sentirsi sicuri'. (...) Vivere nella Heimat significa che quanto è a noi noto torna a riproporsi con varianti minime. E' una condizione che , se si conosce solo il proprio luogo d'origine, può condurre all'imbarbarimento, all'avvizzimento nel provincialismo, Ma se non si ha una Heimat si è vittime della mancanza di ordine, di turbamenti, della dispersione.".
E' pur vero, dice l'autore, che ci si può ricreare una Heimat anche in esilio, trovare una nuova patria, ma per chi vi giunge in età adulta la decifrazione dei segni nel paese straniero risulterà sempre un 'atto intellettuale' e non spontaneo come avviene per i " segnali che abbiamo recepito molto presto, che abbiamo imparato a interpretare mentre prendevamo possesso del mondo esterno ( che ) divengono elementi costitutivi e costanti della nostra personalità : come si apprende la lingua madre senza conoscerne la grammatica così si sperimenta l'ambiente patrio. Lingua madre e ambiente patrio crescono insieme a noi, crescono in noi e si trasformano così in quella confidenza che ci garantisce la sicurezza."
Amery, cit.pp.90-2

Améry ritorna spesso nelle citazioni di autori che hanno affrontato lo sterminato settore di quella che viene chiamata ( con un brutto termine) la 'letteratura concentrazionaria', cioè di tutti coloro che si sono occupati della Shoah. Améry come Bettelheim, Levi e i molti altri sconosciuti ,è un testimone di prima mano dell'esperienza del lager e tutti e tre sono morti suicidi. Della morte di Primo Levi non ho mai accettato la versione fornita dai giornali- io credo che si sia semplicemente sporto troppo dalla scalinata che conduceva all'appartamento dell'anziana madre, malata. Era anche lui stanco e malato e ormai anziano e forse è stato preso da vertigini. Quando, per motivi di lavoro ( è stato direttore di una fabbrica di vernici) si incontrava con dei clienti tedeschi, si scusava per il suo tedesco rozzo, poco educato - d'altra parte diceva di averlo imparato ad Auschwitz, dove fressen indicava l'atto del mangiare dei detenuti ( e degli animali). Conoscere un po' di tedesco per averlo incontrato nei testi universitari, diceva gli aveva salvato la vita nel lager, dove capire il proprio numero tatuato sul braccio era di vitale importanza nel campo, dal momento che non si aveva più un nome ma si era diventati un numero. Capire un ordine poteva decidere della vita o della morte di una persona.
Das Gattermann:
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"Später, im Konzentrationslager, wird für nicht deutschsprachige Häftlinge die Kenntnis der deutschen Sprache im allgemein oft das Leben oder den Tod bedeuten.

Der größte Teil der Gefangenen, die des Deutschen nicht mächtig waren, und das traf fast alle Italiener zu, starb innerhalb der ersten zehn bis fünfzehn Tage nach der Ankunft: auf den ersten Blick wegen Hunger, Kälte, Erschöpfung, Krankheit; aber bei genauerem Hinsehen wegen unzureichender Information." 8

8 Primo levi: Die Untergegangenen und die Geretteten, (Kap. IV: Kommunikation und Verständigung), aus dem Italienischen von M. Kahn, München 1990, S. 93. Levi beherrschte die deutsche Sprache nur bruchstückhaft: „Einige Jahre zuvor, als ich noch studierte, hatte ich ein paar Wörter Deutsch gelernt, mit dem ausschließlichen Ziel, Fachtexte über Chemie und Physik zu verstehen, keinesfalls aber, um meine Gedanken aktiv zu vermitteln […]. Aber nachdem es mich nach Auschwitz verschlagen hatte, begriff ich […] daß mein äußerst dürftiger ‚Wortschatz‘ zu einem grundlegenden Überlebensfaktor geworden war“. Levi: Die Untergegangenen und die Geretteten, S. 95, 96.

Barbara Agnese, « Sprache und Erinnerung bei Jean Améry und Primo Levi1 », Fabula / Les colloques, La conquête de la langue, URL : http://www.fabula.org/colloques/document1987.php, page consultée le 15 février 2016.
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Re: Wieviel Heimat?

Messaggioda Berto » dom feb 14, 2016 12:56 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Wieviel Heimat?

Messaggioda Sixara » lun feb 15, 2016 10:56 am

Améry scrive che "una nuova patria" non può esistere:
la Heimat è il paese dell'infanzia e della giovinezza. Chi l'ha smarrita resta spaesato ( letteralmente s-paesato, senza paesaggio) " per quanto all'estero possa aver appreso a non barcollare come un ubriaco e ad appoggiare a terra il piede senza troppi timori".
L'autore riporta un episodio cruciale per il riconoscimento della perdita della patria : nel 1943 poco prima di essere arrestato si trovava in Belgio in un appartamento dove assieme ad altri compagni svolgeva attività clandestine di propaganda e resistenza anti-nazista. Nella stessa casa, in una stanza sotto la loro c'erano dei soldati tedeschi. Un giorno un soldato, disturbato dal loro armeggiare e discutere, salì a protestare : "... la sua protesta - e per me questo fu il lato realmente spaventoso della vicenda - avvenne nel dialetto della mia regione. Da molto tempo non avevo più udito quella cadenza e questo suscitò in me il folle desiderio di rispondergli nel suo stesso dialetto. ... quel tizio, che in quel momento non mirava alla mia vita, ma il cui compito, gioiosamente svolto era quello, di avviare quelli come me in folta schiera al Lager della morte, mi apparve d'un tratto come un potenziale compagno. Non sarebbe stato sufficiente apostrofarlo nella sua, nella mia lingua, per poi celebrare tra compatrioti, con una bottiglia di buon vino, una festa di riconciliazione?".

"Deutsche Soldaten wohnten im selben Haus und eines Tages, von den „Hantierungen“ der jungen Leuten gestört, klopfte ein Mann in Uniform an die Tür und

verlangte nur brüllend Ruhe für sich und seinen vom Nachtdienst ermüdeten Kameraden. Er stellte seine Forderung – und dies war für mich das eigentlich Erschreckende an der Szene – im Dialekt meiner engeren Heimat. Ich hatte lange diesen Tonfall nicht mehr vernommen, und darum regte sich in mir der aberwitzige Wunsch, ihm in seiner eigenen Mundart zu antworten. Ich befand mich in einem paradoxen, beinahe perversen Gefühlszustand von schlotternder Angst und gleichzeitig aufwallender familiärer Herzlichkeit, denn der Kerl, der mir in diesem Augenblick zwar nicht gerade ans Leben wollte, dessen freudig erfüllte Aufgabe es aber war, meinesgleichen in möglichst großer Menge einem Todeslager zuzuführen, erschein mir plötzlich als ein potenzieller Kamerad. […] In diesem Augenblick begriff ich ganz und für immer, daß die Heimat Feindesland war und der gute Kamerad von der Feindheimat hergesandt, mich aus der Welt zu schaffen."

Barbara Agnese, « Sprache und Erinnerung bei Jean Améry und Primo Levi1 », Fabula / Les colloques, La conquête de la langue, URL : http://www.fabula.org/colloques/document1987.php, page consultée le 15 février 2016.

In quell'istante comprese sino in fondo e definitivamente che la Heimat era diventata terra nemica e che il buon soldato era stato inviato dalla patria-nemica per eliminarlo.
L'autore dice che quella fu ' una esperienza in fin dei conti banale' ma che non sarebbe potuta accadere né a un profugo dei territori orientali, né per ipotesi, a un esule dal Terzo Reich che a New York o in California fosse intento a fantasticare sulla cultura tedesca. " Noi invece non avevamo perso il paese: dovevamo riconoscere di non averlo mai posseduto. Ciò che riguardava questo paese e la sua gente rappresentava per noi l'equivoco di una intera esistenza."

Sulla Heimweh, la nostalgia che lo coglieva nel suo periodo di esule in Belgio- l'autore distingue la nostalgia di casa 'tradizionale' come " una forma di consolatoria autocommiserazione, sempre minata tuttavia dalla consapevolezza che si trattava di una appropriazione indebita... erano viaggi fatti a casa con documenti falsi e tavole genealogiche rubate.", dalla nostalgia di casa autentica, la 'nostalgia primaria'. La nostalgia primaria non era più autocommiserazione ma auto-distruzione : "Era il progressivo smantellamento del nostro passato, il che non poteva avvenire senza disprezzo verso sé stessi e odio per l'Io perduto. Distruggevamo la patria nemica e al contempo cancellavamo quel pezzo di vita nostra che ad essa si collegava.". A tratti si faceva strada anche la nostalgia tradizionale, ciò che era " nostro dovere sociale e nostro urgente desiderio odiare, improvvisamente si parava di fronte a noi, chiedendo di essere vagheggiato", una condizione insostenibile, nevrotica, contro la quale anche la psicanalisi è impotente. L'unica terapia avrebbe potuto essere la prassi storica, ovvero una rivolta da parte tedesca, e con essa il forte desiderio da parte della patria di vederli tornare.
Ma,lo sappiamo, la rivoluzione non ci fu, e quando infine il nazionalsocialismo fu spazzato via da un intervento esterno, il ritorno dei sopravvissuti fu solo fonte di imbarazzo.
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Re: Wieviel Heimat?

Messaggioda Berto » ven feb 19, 2016 8:03 am

Perché l’identità ebraica si completa solo in Israele
Sia le spinte religiose sia quelle post-sioniste perdono di vista l’unicità dell’amalgama di cultura e prassi rappresentato dallo Stato degli ebrei

http://www.lastampa.it/2015/03/17/cultu ... agina.html

Chi è inglese, thailandese, francese o polacco?

Qualunque risposta a questa domanda implicherebbe una distinzione fra cittadinanza e identità, due definizioni che non necessariamente si sovrappongono. Mio nipote, per esempio, è nato negli Stati Uniti d’America dove i suoi genitori risiedevano temporaneamente per lavoro e ha automaticamente ottenuto la cittadinanza americana verso la quale ha ben pochi obblighi, mentre la sua identità è ovviamente israeliana. Se io lo definissi americano lui protesterebbe e si offenderebbe.

Un pachistano appena arrivato all’aeroporto londinese di Heathrow che ha ereditato la cittadinanza britannica dal padre o dal nonno è riconosciuto come inglese pur non sapendo una parola della lingua locale e non avendo mai sentito nominare Shakespeare o Lord Byron. La sua cittadinanza britannica gli dà gli stessi diritti e doveri che ha il Primo Ministro, sebbene l’identità dei due sia completamente diversa.

Cittadinanza e identità al giorno d’oggi non sono la stessa cosa. È vero che per la stragrande maggioranza degli esseri umani identità e cittadinanza coincidono. Ma milioni di persone al mondo (tra cui molti ebrei) pur essendo in possesso di una particolare cittadinanza si ritengono di identità diversa.

Comprendere la differenza tra identità e cittadinanza è fondamentale per rispondere alla domanda chi è israeliano. Per quanto riguarda la cittadinanza tutti coloro che sono in possesso di una carta di identità israeliana sono cittadini dello Stato con pari diritti e doveri. Ma non tutti quelli in possesso di una carta di identità israeliana si ritengono israeliani. Un milione e mezzo di arabi residenti in Israele si definiscono palestinesi. Sono una minoranza etnica nella loro terra – una situazione piuttosto comune nel mondo di oggi – e dunque non diversi da altre etnie come quella basca, curda o francese del Quebec. Occorre però ricordare che la minoranza israelo-palestinese non è stanziata in un particolare territorio. Per quanto la riguarda l’intera Palestina – e tutto il territorio di Israele – è la sua patria. La sua autonomia è quindi unicamente culturale.

Naturalmente ci sono molti elementi di scambio fra l’identità di una maggioranza e la nazionalità di una minoranza. L’identità degli ebrei francesi, per esempio, è fortemente influenzata dalla loro cittadinanza ed è probabile che la loro nazionalità francese sia in qualche modo influenzata dalla loro identità ebraica. Lo stesso vale per Israele. L’identità degli arabi israeliani (anche grazie alla lingua ebraica) comprende elementi dell’identità israeliana e contribuisce a plasmarla. Quando un arabo israeliano presiede il processo al presidente dello Stato in qualità di giudice o amministra un ospedale e stabilisce nuove procedure di ricovero, contribuisce a forgiare i canoni dell’identità israeliana così come un giudice ebreo-americano presso la Corte Suprema degli Stati Uniti è parte integrante e determinante del sistema legislativo americano. Eppure c’è ancora una differenza tra identità e cittadinanza. E chi, come gli ebrei, lo ha dimostrato nel corso della storia e lo dimostra tuttora in molte parti del mondo.

Il termine «israeliano» non si riferisce solamente a una cittadinanza comune a ebrei e ad arabi, ma indica un’identità. Se in Israele non ci fossero palestinesi lo Stato si chiamerebbe comunque «Israele» e i suoi cittadini «israeliani» e non «ebrei». «Ebrei», peraltro, è una denominazione tardiva apparsa per la prima volta nella diaspora in riferimento a Mardocheo che combinò a Susa un matrimonio tra sua cugina Ester e il re Assuero. Se Mosè, re Davide e i profeti Isaia, Geremia e Samuele arrivassero in visita alla Knesset e il presidente di quest’ultima chiedesse loro di presentarsi non c’è dubbio che la loro risposta sarebbe: «Noi siamo israeliani» oppure «Noi apparteniamo al popolo di Israele». E se il presidente, sorpreso, domandasse loro: «Siete ebrei?» la risposta sarebbe: «Non sappiamo a cosa lei si riferisca con questo termine».

Il termine «giudeo» o «ebreo» non compare nel Siddur, il libro di preghiere della liturgia quotidiana, nemmeno una volta mentre nella Mishnah si insiste sull’uso del termine «israeliano» anziché «ebreo».

Secondo la tradizione fu Dio stesso a scegliere il nome «Israele». Pertanto anche il nome della regione in cui il popolo si stanziò è «terra di Israele» e nelle università si studia il pensiero filosofico di Israele, la storia del popolo di Israele e la letteratura di Israele. E naturalmente il nome dello Stato sorto nel 1948 è Israele. Quindi ci si domanda cosa sia mai successo negli ultimi venti o trent’anni per cui i termini «ebreo», «ebraismo», «Stato ebraico» stanno a indicare un’identità israeliana e hanno relegato il termine «israeliano» a designare la mera cittadinanza.

È possibile che un abitante di Madrid consideri la sua cittadinanza spagnola un semplice denominatore comune a lui, a un basco o a un catalano anziché vedere in essa un’identità profonda e dalle molteplici radici?

A mio parere almeno quattro diversi fattori, talvolta contrapposti, hanno contribuito a far sì che il termine «israeliano» indichi la sola cittadinanza.

1) Innanzi tutti le varie correnti religiose. Sebbene il termine «ebreo», come ho detto sopra, non racchiuda necessariamente alcun elemento religioso, per gli ortodossi è chiaro che se il sostantivo «israeliano» si limiterà a designare la cittadinanza, la parola «ebreo», svuotata di obblighi civili, richiamerà contenuti religiosi. Immaginiamo un rabbino militare che domanda a un soldato: «Chi sei?» E quello risponde con innocenza «Io sono israeliano, presto servizio nell’esercito e parlo ebraico». Al che il rabbino risponde: «Tutto qua? Anche un druso è israeliano come te, presta servizio nell’esercito e parla ebraico, qual è allora la differenza tra voi?». E mentre il soldato, imbarazzato, comincerà a balbettare il rabbino militare gli proporrà di riempire il vuoto di identità con «la tradizione ebraica», vale a dire con la religione. A questa tattica collaborano non solo i rappresentanti del partito politico «Habait Hayehudì» e varie correnti ortodosse ma anche riformisti e persone in cerca di «radici», che tentano di riversare nell’identità israeliana contenuti religiosi attinti principalmente dagli scritti sacri e dalla letteratura rabbinica esegetica.

2) Un secondo fattore che contribuisce a limitare il termine «israeliano» alla sola cittadinanza è rappresentato dagli ebrei della diaspora e da chi è impegnato a mantenere un legame con loro. Ora che il termine «israeliano» esprime anche la specifica appartenenza a uno stato gli ebrei della diaspora hanno bisogno di differenziarsi da esso per evitare di essere formalmente identificati come suoi cittadini. Viceversa, tutti coloro che operano per mantenere vivo il rapporto tra gli ebrei della diaspora e Israele e promuovere l’immigrazione utilizzano il termine «popolo ebraico» come unico elemento in grado di creare aggregazione e un senso di solidarietà. Ma anziché proporre agli ebrei della diaspora di migliorare e approfondire il loro ebraismo adottando l’identità israeliana il messaggio è il seguente: «Venite a rafforzare la parte ebraica di Israele contro i suoi cittadini arabi».

3) Un terzo fattore – completamente diverso e con interessi opposti a quelli precedenti – è rappresentato dagli stessi arabi. Costoro dicono agli israeliani: «Voi, di fatto, siete ebrei, proprio come i vostri confratelli d’America, d’Inghilterra o d’Argentina. Per più di duemila anni avete vissuto sparsi per il mondo e mantenuto le vostre tradizioni e la vostra identità. Perché siete venuti ad ammassarvi nella nostra terra, portandocela via e mettendo in pericolo voi stessi? Dopo tutto siete parte del popolo ebraico. L’identità ebraica, sia da un punto di vista religioso che nazionale, non ha bisogno di un territorio e di una sovranità per essere plasmata. Per secoli gli ebrei hanno vissuto qui, in terra di Israele e in tutto il Medio Oriente, e il loro stile di vita e le loro aspirazioni non erano diversi da quelle degli ebrei della diaspora. Perché mai avete bisogno di una sovranità e di una identità israeliane?».

4) Il quarto fattore che opera per relegare in un angolo l’identità israeliana – completamente diverso dai primi tre – è rappresentato dai post sionisti che vorrebbero una nazione nuova, separata e slegata dall’identità ebraica della diaspora, sia da un punto di vista storico che religioso (in uno spirito «cananeo»). Per loro un Israele «Stato di tutti i suoi cittadini» non è solo una giusta richiesta di uguaglianza ma anche, in una certa misura, una pretesa sempre più forte di sovrapposizione tra cittadinanza e identità. In altre parole vorrebbero un appannamento dell’identità storica israeliana e la sua sostituzione con una cittadinanza generica, analoga a quella americana o australiana.

Questi quattro fattori (sommati ad altri, in diverse varianti) minano la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa che intendo promuovere.

«Nessuna comunità e nessun ebreo, neppure uno come te, può vivere il giudaismo e nel giudaismo e condurre un’esistenza pienamente ebraica nella diaspora. Solo in Israele ci può essere un’esistenza simile. Solo qui fiorirà una cultura ebraica degna di questo nome, ebraica al cento per cento e umana al cento per cento. Gli scritti sacri non sono che una parte, un settore della cultura. La cultura di un popolo è fatta di campi, di strade, di case, di aeroplani, di laboratori, di musei, di un esercito, di scuole, di un governo autonomo, di panorami del suolo natio, di teatri, di musica, della lingua, di memorie, di speranze e di tanto altro ancora. Un ebreo completo, un essere umano completo, senza lacerazioni e senza frapposizioni tra il suo essere ebreo e il suo essere umano, tra il cittadino e il pubblico – non può esistere in terra straniera».

Queste incisive parole, portate di recente alla mia attenzione, furono scritte dal Primo Ministro israeliano David Ben Gurion negli Anni Cinquanta a un ebreo della diaspora di nome Ravidovic. Parole analoghe, da me pronunciate qualche anno fa durante un discorso ai membri del Comitato ebraico americano di Washington, hanno provocato reazioni burrascose. Nessuno, infatti, è felice di sentirsi dire che l’identità che gli sta a cuore è incompleta. Ma quando mi sono reso conto che anche in Israele molti disapprovano questa mia opinione ho capito che qualcosa di fondamentale si è deteriorato nella comprensione del cambiamento sostanziale avvenuto nell’identità ebraica con la creazione di Israele. E questo è sorprendente dal momento che in passato, agli albori del sionismo e subito dopo la fondazione dello Stato di Israele, la percezione dell’identità israeliana come identità ebraica completa era naturale per molti. Di recente, infatti, si è verificato un preoccupante regresso dovuto, come si è detto, a fattori diversi e contrastanti, in primis alle varie correnti religiose.

È vero che per duemila anni è esistito un unico modello di identità ebraica. Gli ebrei vivevano in mezzo ad altri popoli, in nazioni che consideravano straniere, dominate da religioni e da etnie diverse e in cui si parlavano lingue straniere. Gli ebrei, come minoranza etnica in perenne movimento, partecipavano in diversa misura alla vita che ferveva intorno a loro mentre la loro identità ebraica toccava solo determinati aspetti della loro esistenza. Inoltre (ed è questo a mio parere il cambiamento fondamentale avvenuto con l’istituzione di una sovranità ebraica in Israele) nella diaspora nessun ebreo esercitava, o tuttora esercita, alcuna autorità sui propri connazionali. Gli ebrei sono liberi gli uni nei confronti degli altri e non hanno alcun obbligo verso i loro confratelli che non sia dettato dalla loro volontà. La loro vita è governata dai gentili alla cui autorità devono sottoporsi. Di più. La responsabilità collettiva degli ebrei è puramente volontaria. Una sciagura degli ebrei russi non impone alcun aiuto da parte degli ebrei italiani che non scaturisca da una loro scelta. Non ha perciò senso parlare di un destino comune ebraico. Quando Londra fu bombardata durante il blitz tedesco anche cittadini di Liverpool o di Leeds parteciparono alla sua difesa e abitanti di Manchester furono inviati a combattere contro i tedeschi nel deserto occidentale. Il piano di austerità deciso dal governo britannico fu imposto a tutti i cittadini, ovunque si trovassero.

Questo è un destino comune e secondo questa definizione si può dire che esista un destino comune israeliano o palestinese. Ma quando gli ebrei furono mandati nei campi di sterminio in Polonia i loro connazionali a New York, in Brasile o in Iran continuarono a condurre la solita vita. E quando gli ebrei furono espulsi dalla Spagna i loro confratelli iracheni o tedeschi continuarono a svolgere pacificamente il loro lavoro. Il destino degli ebrei nella storia è determinato, nel bene e nel male, dai popoli in mezzo ai quali vivono.

L’identità israeliana restituisce agli ebrei il controllo su altri ebrei, come durante il periodo del primo e del secondo Tempio, e una inevitabile responsabilità reciproca. In Israele gli ebrei pagano le tasse in base a una legge creata da ebrei, vanno in guerra per volontà di altri ebrei, proteggono insediamenti che forse disapprovano o ne evacuano altri ritenuti sacri dai loro residenti. Questa interazione crea una struttura identitaria ricca e infinitamente più significativa da un punto di vista esistenziale e morale di quella esistente nella diaspora dove il dibattito è puramente concettuale, senza capacità impositiva.

Di colpo tutte le componenti della vita si aprono all’identità ebraica che in questo modo si trasforma in israeliana e nuove questioni etiche, delle quali gli ebrei non si sono mai occupati e non si occupano nella diaspora, si presentano come sfide agli israeliani che si trovano a dover prendere delle decisioni, nel bene o nel male, e non solo a disquisire di dubbi teorici.

Come deve essere un carcere israeliano? Quali devono essere le dimensioni delle sue celle? Quali procedure occorre seguire durante un arresto? Fino a che punto è possibile e moralmente consentito torturare un pericoloso terrorista per estorcergli informazioni importanti? È permesso vendere armi a un regime dittatoriale in Africa al fine di evitare la disoccupazione nell’industria bellica israeliana?

I valori nazionali sono determinati non solo dal dibattito ma dall’azione. È facile per un rabbino di una sinagoga di Chicago sventolare di sabato «l’etica ebraica», spanderne il profumo fra i suoi ascoltatori e poi riporla nel suo scrigno. In Israele l’etica ebraica è talvolta determinata dall’inclinazione del fucile di un soldato davanti a una manifestazione di palestinesi. L’etica ebraica viene messa alla prova ogni giorno e ogni ora, in mille occasioni. Perciò al giorno d’oggi è più facile essere ebreo nella diaspora e affrontare le grandi questioni esistenziali come cittadino (spesso un po’ in disparte) di un’altra nazione.

Anche gli ebrei religiosi israeliani ampliano notevolmente la loro identità e sono chiamati a prendere decisioni che nessuno pretende dai loro confratelli nella diaspora. Un israeliano credente è chiamato, esattamente come un laico, a decidere con il suo voto se investire nel settore militare piuttosto che in quello sanitario. Può giustificare la sua posizione basandosi sugli scritti sacri, ed è persino auspicabile che lo faccia, ma tali giustificazioni dovranno confrontarsi con argomentazioni provenienti da fonti diverse. E ciò che verrà deciso diventerà legge.

Una lezione di Talmud in un’Accademia rabbinica non rappresenterà perciò una maggiore espressione di identità ebraica di quanto non lo sia un dibattito della commissione parlamentare israeliana per la prevenzione degli incidenti stradali. È la realtà israeliana a creare un’integrazione tra lo spirituale e il materiale, come indicato da Bialik.

Per gli ebrei, che per la maggior parte della loro storia hanno indossato e smesso abiti nazionali di altri, il processo di trasformazione dell’identità israeliana da indumento in una nuova pelle, è qualcosa di nuovo e di rivoluzionario. Siamo solo all’inizio della lotta per un posto dell’identità israeliana nella nostra vita. L’ondata di ebraismo religioso di cui siamo testimoni non fa che ostacolarne e minarne la stabilizzazione e l’approfondimento.

Io credo che ex israeliani ed ebrei odierni popoleranno anche le colonie spaziali che sorgeranno fra pochi decenni. E forse anche lassù gli inviati di Chabad (movimento religioso ebraico N.d.T.) li aiuteranno a mantenere un minimo di identità ebraica come fanno ora in tutto il mondo. Da lassù, dalle colonie spaziali, diranno probabilmente «L’anno prossimo a Gerusalemme». E la domanda angosciante sarà: Gerusalemme sarà allora un concetto astratto, come lo è stata per centinaia di anni di storia ebraica, o una realtà viva? Questo non dipenderà dall’identità ebraica, ma unicamente da quella israeliana.

[Trad. Alessandra Shomroni]
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Re: Wieviel Heimat?

Messaggioda Sixara » mer feb 24, 2016 7:23 pm

Affine al rapporto con la Heimat negli anni dell'esilio, fu quello con la lingua madre. L'autore sostiene di avere perduto anch'essa senza aver potuto avviare un procedimento di restituzione. Alla lingua dell'esilio, faticosamente appresa, si aggiungeva, nelle conversazioni quotidiane con i compagni di sventura anche la lingua madre, ma i discorsi vertevano su argomenti sempre uguali o via via peggiori : dapprima sulle questioni del sostentamento, sui documenti di soggiorno e di viaggio poi con l'occupazione tedesca del Belgio, sul puro e semplice pericolo di morte. Una lingua, la loro, che si riduceva a mano a mano che laggiù, nella patria-nemica, i fatti linguistici seguivano il loro corso.
" Quella che vi nasceva non era una lingua bella, questo no (...) ma era ... una lingua della realtà. ... noi eravamo esclusi dalla realtà tedesca e quindi anche dalla lingua tedesca. ... Non ci rendevamo conto di quanta parte del patrimonio linguistico, o se si vuole , della perversione linguistica di questa epoca si sarebbe conservato in Germania, ben oltre il crollo di Hitler (...)".
Per gli esuli del terzo Reich si modificò il contenuto di fondo di ogni parola tedesca e infine - continua Améry- " la lingua madre divenne, che lo volessimo o meno, altrettanto ostile quanto coloro che intorno a noi la parlavano".
Le parole ( che l'autore poteva leggere ad esempio nella Brusseler Zeitung, l'organo delle forze di occupazione ) erano gravide di una realtà concreta che si chiamava minaccia di morte. Eppure erano le stesse, usate nella lingua del poeta che parlava di Busch un Tal, e del chiaro di luna;
" ... non vi era una sola parola che non avrebbe potuto pronunciare anche il nostro potenziale assassino. Nel bosco e nella valle magari cercavamo di nasconderci. Ma nel nimbo di luce venivamo scoperti."

"Ogni persona ha diritto di ricordare il proprio passato e non è del tutto esatto ciò che ha detto Sartre, che l'uomo è solo ciò che ha realizzato, ossia che, per una vita che volga al termine, la fine sia la verità dell'inizio. E' stata una esistenza meschina ? Forse. Ma non lo fu in tutte le sue tappe. Le mie potenzialità di allora sono parte di me quanto il mio successivo fallimento o insufficiente riuscire. Mi sono ritirato nel passato, in lui ho trovato rifugio, vivo in pace; grazie non me la passo male. Queste all'incirca le parole di chi ha diritto al proprio passato. L'esule del terzo Reich non potrà mai pronunciarle, nemmeno pensarle."

Nel campo di Gurs, nella Francia meridionale dove, nel 1941 l'autore si trovò per qualche mese, era internato , quasi settantenne il poeta neo-romantico Alfred Mombert, all'epoca assai noto.
Così scriveva il poeta ad un amico :" Tutto scivola via da me, come una forte pioggia....Ho dovuto abbandonare tutto, proprio tutto. L'appartamento sigillato dalla Gestapo. Consentito portare con sé 100 marchi (...). Nel giro di qualche ora alla stazione, con mia sorella settantaduenne e con tutta la popolazione ebraica del Baden e del Palatinato ... e poi il trasporto, via Marsiglia, Tolosa verso i Bassi Pirenei, in un grande campo di internamento... Chissà se a un altro poeta tedesco è mai successo qualcosa di simile?".

Tutto scivolava via come una forte pioggia, commenta Améry, è vero non lo si può negare. Il passato del poeta Mombert, defluì dal mondo il giorno in cui venne deportato da Karlsruhe, e nessuna mano si levò in sua difesa. E tuttavia, quando l'irreparabile era ormai avvenuto, egli si definì un 'poeta tedesco'. Ein deutscher Dichter. Nella baracca di Gurs, affamato, tormentato dai parassiti, non avrebbe in nessun modo potuto riconoscere quanto sarebbe apparso evidente solo dopo anni di riflessioni e indagini : e cioè che poeta tedesco può essere solo colui che non solo compone in tedesco ma per i tedeschi. " A ripudiare questo uomo anziano fu la mano che non si levò in sua difesa. I lettori di un tempo che non protestarono contro la sua deportazione, annullarono i suoi versi. E' morto senza un passato: e noi possiamo solo sperare che egli, non sapendolo, sia morto in pace."

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